lunedì 27 febbraio 2012

SPESE DI LITE

Riprendiamo dal sito Altalex

Il giudice non può compensare, in tutto o in parte, le spese di lite del giudizio senza far riferimento alle particolari e specifiche circostanze della controversia decisa.
Così ha statuito la Suprema Corte, nell’ordinanza 15 dicembre 2011, n. 26987, in cui è indicato che, se il giudicante non motiva la decisione di compensare le spese, la parte soccombente dovrà pagare l’avvocato della parte vittoriosa.
In particolare, la sezione sesta civile della Cassazione, ha accolto il ricorso di un automobilista al quale, ottenuto l’annullamento del verbale di accertamento di una violazione al codice della strada, erano state compensate le spese legali sia dal Giudice di pace che dal Tribunale.
In particolare, il Giudice di secondo grado aveva spiegato che la scelta di compensazione era dovuta alla “limitata attività difensiva” svolta dalla parte, alla natura della controversia, nonché alla materia oggetto di causa.
Gli Ermellini hanno ritenuto fondato il ricorso ”tenuto conto che l’art. 92, secondo comma cod. proc. civ., nel testo introdotto dall’art. 2 della Legge 28 dicembre 2005, n. 263, dispone che il giudice può compensare le spese, in tutto o in parte, se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre” gravi ed eccezionali ragioni ”, esplicitamente indicate nella motivazione“. E’ stato perciò, condiviso l’orientamento espresso sul punto dalla Cassazione, secondo cui ”non è sufficiente che il giudicante fornisca una qualsiasi motivazione, ma è necessario che esponga argomentazioni giuridiche o di fatto idonee a giustificare la statuizione di compensazione adottata in concreto, potendo solo in tal caso ritenersi che la disposizione di legge sia stata osservata” (Cass. II, sentenza 21521 del 2010).
Pertanto, le gravi ed eccezionali ragioni che giustificano la compensazione delle spese legali, dovranno essere indicate esplicitamente nella motivazione, non potendo essere desunte dalla struttura del tipo di procedimento contenzioso applicato, né dalle particolari disposizioni processuali che lo regolano, ma devono riferirsi a concreti e particolari aspetti della controversia decisa.
La suddetta pronuncia conferma altre recenti decisioni della giurisprudenza di legittimità, secondo cui, il vizio di violazione di legge dell'art. 92, II comma, c.p.c., sussiste qualora la decisione di compensazione delle spese sia giustificata da generici motivi di equità e di opportunità (Cass., ord. 5 gennaio 2011, n. 247; Cass. 24 aprile 2010, n. 9845), per cui le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa se la scelta di compensazione sia motivata genericamente, così da non spiegare il processo formativo della volontà decisionale del giudicante (Cass. sentenza 9 dicembre 2011, n. 26466).
Le suindicate pronunce della non si sposano con le novità apportate dalla Manovra Monti in merito ai ricorsi davanti al Giudice di pace avverso le multe. In effetti, l’articolo 13 del Decreto legge 22 dicembre 2011, n. 212 contiene la modifica dell’articolo 91 del c.p.c., laddove prevede che «Nelle cause previste dall’articolo 82, primo comma, le spese, competenze ed onorari liquidati dal giudice non possono superare il valore della domanda».
Pertanto, adesso il Giudice di pace potrà condannare la parte soccombente al rimborso delle spese legali in favore della parte vittoriosa, ma nei limiti del valore della domanda.
(Altalex, 11 gennaio 2012. Nota di Maria Elena Bagnato)

lunedì 13 febbraio 2012

Tariffe forensi ed acrobazie giudiziarie

Riprendiamo dal sito di Altalex

Forse avrà anche contribuito ad abbassare lo spread, ma certamente - almeno nella fase d’avvio - il decreto “salvaitalia” non ha certo contribuito a rendere più certa, celere o agevole l’amministrazione della giustizia, soprattutto per le parti di buona fede.
Infatti l’abolizione delle tariffe professionali tout court per decreto e senza la previsione di una moratoria e/o un regime transitorio che fungesse da soluzione di continuità tra il vecchio sistema e il nuovo, ha lasciato un vuoto legislativo che la fantasia degli interpreti ha dovuto riempire nei modi più disparati. E se si può anche condividere l’enunciazione di principio secondo cui in un mercato transnazionale aperto non sia concepibile la sopravvivenza di sistemi di prezzi vincolati e amministrati politicamente dall’autorità statale, dobbiamo constatare che il modo e lo strumento con il Legislatore governativo ha scelto di riformare non è stato certo il più accorto e prudente, come del resto ha già osservato la commissione giustizia del Senato nel rendere il suo parere – ampiamente negativo – sul provvedimento.
Intanto però il decreto è vigente, e giudici e avvocati devono farci i conti. Letteralmente. Perché qui il problema è esattamente come fare i conti, cioè come liquidare la condanna nelle spese una volta che per legge le tariffe che costituivano i vecchi parametri sono inutilizzabili perché soppresse, mentre, d’altro canto, il ministro vigilante (che pur ha controfirmato il decreto legge 1/12) non ha ancora approntato i parametri previsti dal comma 2 dell’art. 9 per l’ipotesi specifica della liquidazione giudiziale dei compensi professionali.
Ecco quindi un giudice di Cosenza (ordinanza 1 febbraio 2012) che dichiara che in mancanza di un qualunque parametro di riferimento non può procedere ad alcuna liquidazione delle spese di procedura, nemmeno in via equitativa. Al contrario, il Giudice di Pace di Milano (sentenza 30 gennaio 2012) tenta un’operazione di interpretazione integrativa, col richiamo di una norma sostanziale, segnatamente l’art. 6, D.Lgs. 231/02, per procedere alla liquidazione delle spese di un’ingiunzione di pagamento. Tale norma, invero (analogamente all’art. 1224 c.c.), sancisce il diritto del creditore a ripetere dal debitore tutti i costi di recupero del credito, determinati anche presuntivamente. Tuttavia proprio il comma 2 del richiamato art. 6 contiene, a ben guardare, un elemento che ne vanifica il richiamo per lo scopo che ci occupa. A mente di tale norma i costi di recupero possono essere determinati anche in base ad elementi presuntivi e tenuto conto delle tariffe forensi in materia stragiudiziale, ma devono pur sempre rispondere a principi di trasparenza e di proporzionalità.
L’analisi sistematica e letterale della norma non lascia dubbi sul fatto che due siano i riferimenti per la liquidazione: 1) gli elementi presuntivi; 2) le tariffe forensi. Abolite queste ultime dal D.L. 1/12, non resterebbero che i primi, i quali però, per rispondere ai criteri di trasparenza e proporzionalità comunque richiesti dall’art. 6, D.Lgs. 231/02, dovrebbero essere indicati, quanto meno in modo sintetico e sommario, dal giudice liquidante, cosa che nel decreto in esame non è stata fatta. Ciò, a parere di chi scrive, legittimerebbe un’opposizione sul punto delle spese. In altre parole il giudice avrebbe dovuto palesare – anche solo con un breve inciso – i criteri con cui aveva ritenuto di determinare in 400,00 € piuttosto che in 350,00 o in 450,00 o in altra misura le spese del monitorio. In mancanza di tale indicazione, la liquidazione resta arbitraria, anche (o proprio) col riferimento analogico all’art. 6, D.Lgs. 231/02, in quanto non sono intellegibili né tampoco verificabili i criteri di trasparenza e proporzionalità richiesti dalla norma invocata a sostegno. Senza poi contare che il D.Lgs. 231/02 si applica solo ai rapporti tra imprenditori, mentre il correlativo art. 1224 c.c. non dispone di una previsione analoga al comma 2 del citato D.Lgs. 231/02 quanto alla determinazione in via presuntiva.
Resta quindi aperta la domanda: ma allora quali potrebbero essere, allo stato, i criteri per una legittima liquidazione delle spese di giudizio?
Certo ripugna al senso comune (ma anche alla logica sistematica) che una norma emanata dichiaratamente per favorire i cittadini-utenti si concretizzi nell’impossibilità di ripetere dalla parte soccombente gli oneri del servizio professionale sopportati per realizzare le proprie legittime ragioni, anche perché taluno potrebbe dolersi di denegata giustizia rispetto al giudice che rifiutasse di pronunciare sul capo relativo alle spese in ragione dell’abolizione delle tariffe professionali, ovvero dolersi della violazione del principio di soccombenza sancito dall’art. 91 c.p.c.
Ma d’altronde come non comprendere l’imbarazzo di chi, dovendo esprimere e giustificare un numero, un valore economico, si vede da un giorno all’altro deprivato degli strumenti indicatori che hanno sino a quel momento guidato la liquidazione delle spese? Tuttavia anche di fronte alla distonia legislativa il giurista interprete deve provare a raggiungere un risultato utile e coerente, per quanto ancora possibile.
E allora, pur in mancanza di un auspicabile regime transitorio, si può forse supplire al deficit attraverso un’operazione logica che, passando per l’art. 36 Cost., definisca e legittimi dei criteri di liquidazione giudiziale delle spese sin quando il ministro di giustizia non avrà avuto l’accortezza di provvedere a dar luogo all’art. 9 comma 2 del decreto “salvaitalia”.
Il ragionamento potrebbe essere il seguente: posto che, ai sensi dell’art. 91 c.p.c. il giudice, salvo ricorrano motivi di compensazione, è tenuto a liquidare e porre a carico della parte soccombente le spese della lite sostenute dalla parte vittoriosa; che una quota non trascurabile di esse è costituito dal compenso dell’opera del difensore, il quale è prestatore d’opera intellettuale e come tale rientrante nella previsione dell’art. 36 Cost.; che infatti, sin quando sono state vigenti, le tariffe professionali forensi erano redatte avuto riguardo a tale norma costituzionale; che la loro soppressione come cogenti non ne elimina né ne inficia, in mancanza di altri parametri, l’utilizzabilità ai fini di una liquidazione equitativa delle spese di lite; che sarebbe contrario al principio di ragionevolezza affermare oggi un compenso inferiore a quello ritenuto sino a ieri conforme all’art. 36 Cost.; liquida equitativamente in € (…) le spese di lite.
Poi quando il ministro provvederà ad integrare la previsione normativa dell’art. 9 comma 2, si potrà essere esenti dallo sgranare il rosario che precede.
(Altalex, 9 febbraio 2012. Articolo di Barbara Lorenzi e Giuseppe M. Valenti)

venerdì 10 febbraio 2012

Lettera di un avvocato

Al Sig. Presidente dell'OUA - Roma
Al Sig.Presidente del CNF – Roma
Al Signor Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Catania
Carissimi Presidenti,
Mi chiamo Goffredo D'Antona classe 1963, faccio l’avvocato penalista a Catania.
Qualche giorno fa, sulla spinta della rabbia e della delusione suscitate dalla lettura delle nuove norme del decreto liberalizzazioni riguardanti le professioni, ho scritto una lettera aperta al Ministro della Giustizia, nella quale ho voluto esprimere quella rabbia e la stanchezza per il definitivo svilimento subito dalla professione di avvocato.
Sappiamo tutti che i provvedimenti legislativi approvati negli ultimi anni hanno avuto un unico filo conduttore: costruire una giustizia per ricchi, sminuire il ruolo dell'avvocato; tutto ciò a compressione dei diritti dei cittadini, quei diritti sanciti nella Costituzione, che sembra ogni giorno di più dimenticata.
Sino all'ultima “riforma” varata dal governo Monti; provvedimento che, a mio avviso, riduce quella che è una figura fondamentale delle nostra Democrazia, avente, spesso lo si dimentica, rango costituzionale – quella dell'avvocato -, alla stregua di un “ bottegaio” ( nel senso astratto del termine)..
Nella mia lettera ho raccontato la mia esperienza, comune a tanti colleghi, dicendo una cosa che a me sembrava ovvia – ma che ai più, forse, non lo è -, e cioè che per diventare avvocato ho studiato e mi sono impegnato tanto, facendo molti sacrifici. Ho voluto raccontare la mia storia di professionista. Ho voluto raccontare dell'impegno profuso nella professione, dei sacrifici che continuo a fare, spesso a discapito della mia famiglia; ma anche delle soddisfazioni che questa professione regala. Al ministro della Giustizia ho scritto che io ci credo ancora, forte degli insegnamenti di Calamandrei; credo che l'avvocato sia e debba restare una sentinella della Costituzione. Così come in fondo stabilisce quel giuramento che compiamo nel giorno in cui mettiamo la prima volta la toga.
Ho inviato la lettera al Ministro della Giustizia, certo che non avrei avuto risposta. Come infatti non ho avuto.
Questa lettera poi ha cominciato a circolare, tra avvocati e no. Inaspettatamente sono stato contatto da avvocati da tutta Italia, di tutte le età, che mi hanno detto che si sono ritrovati in quella lettera. In quei sacrifici, in quello senso di essere un componente della Giustizia.
Confesso che mi sono una punta vergognato, in quanto ho parlato anche dei miei sacrifici di padre, non pensando agli immani sacrifici che le donne, le mamme affrontato ogni giorno facendo questo mestiere.
Ho compreso anche una cosa.
Che noi avvocati siamo stanchi di vedere le nostre toghe sporcate da avvocati lestofanti contro i quali si è fatto troppo poco. E che offuscano loro la nostra immagine, ma sopratutto la nostra funzione.
Ho compreso anche un'altra cosa.
Che noi avvocati siamo stanchi di esercitare la nostra funzione Costituzionale in condizioni silenti di grandi sacrifici e di essere additati dal politico di turno, come i responsabili della crisi della giustizia e addirittura della crisi economica, di “ questo benedetto assurdo bel paese”.
Per tali ragioni mi rivolgo a Voi, portandoVi questo piccolo patrimonio di consenso che inconsapevolmente la mia lettera ha ricevuto. A questo punto, tocca a Voi.
Tocca agli Organismi che ci rappresentano a livello nazionale farsi portatori di una protesta incisiva, dura, capace di arrivare a chi deve decidere e di sensibilizzare l'opinione pubblica. Perdonatemi, non certo una protesta come quella organizzata in occasione della legge sulla mediazione – protesta debolissima, oltre che inutile e tardiva, visto che la legge era già entrata in vigore! .
In Parlamento si sta discutendo della conversione in legge del decreto. Questo è il momento di fare sentire la nostra voce, attraverso il dialogo con le forze politiche – come si sta già facendo- , ma anche organizzando iniziative “forti”, che non si limitino ad un paio di giorni di astensione dalle udienze.
Iniziative anche estreme.
E non per difendere i nostri “ privilegi “ ( che a quasi 50 anni devo dire non so bene quali siano, se non fare il lavoro più bello del mondo), ma per difendere quella Carta Costituzionale scritta qualche anno fa anche da un nostro collega, Autore di un libro che dovrebbe essere materia di esame per diventare avvocato.
L'occasione è imperdibile; anche perché è forse l ultima per dare dignità e decoro alle nostre toghe. Quelle toghe che ci hanno regalato i nostri Mastri e che noi regaliamo ai nostri Allievi. Quelle toghe che dovremmo donare ai nostri Allievi.
Mi aspetto – ci aspettiamo – molto di più.
In difesa della Professione. In difesa della Giustizia. In difesa della Costituzione.
Un Caro saluto.
Catania 10 febbraio 2012.
Goffredo D’Antona

giovedì 9 febbraio 2012

Delegazione aiga incontra il ministro della Giustizia

Comunicato Stampa del 09.02.2012
GIUSTIZIA. GIOVANI AVVOCATI RICEVUTI DAL MINISTRO SEVERINO
GRECO: RIVEDERE ACCESSO, PREMIANDO CHI SVOLGE DAVVERO PRATICA
«Siamo soddisfatti per l'incontro che abbiamo avuto oggi con il ministro della Giustizia Paola Severino, alla quale abbiamo posto in evidenza lo stato di indigenza della giovane avvocatura, costretta, fra l'altro, ad attendere anche tre anni per ottenere l'onorario dopo aver prestato assistenza nel gratuito patrocinio. Abbiamo espresso le nostre perplessità sulla norma per la costituzione delle società professionali, e abbiamo trovato ascolto da parte del Guardasigilli sulla necessità che l'accesso venga rivisto, in Italia, premiando i giovani professionisti più meritevoli, che abbiano realmente svolto la pratica. Abbiamo, inoltre, auspicato l'abrogazione dell'obbligo di preventivo impossibile da redigere per la professione forense». A sostenerlo, in una nota, è Dario Greco, presidente dell'Aiga, l'Associazione italiana dei giovani avvocati, al termine dell'incontro con il ministro della Giustizia. A proposito del praticantato, il leader dei legali under45 aggiunge: «Bisogna evitare fenomeni fittizi, fare in modo che l'avvocatura non diventi l'ultima spiaggia per coloro che sono stati bocciati agli esami per diventare magistrato, notaio, o funzionario pubblico. C'è bisogno, infine – ha chiuso Greco – di dare dignità a chi si avvicina con passione alla professione forense, e dunque va reintrodotto l'equo compenso per il praticante, deciso dalla manovra di agosto e cancellato dal governo Monti».

Responsabilità civile e concorso del creditore

Riprendiamo dal sito Altalex:

Nella sentenza  21 novembre 2011, n. 24406, Cassazione civile, Sezioni Unite, la Suprema Corte affronta una importante questione giuridica, inerente all’intera area della responsabilità civile e relativa, nello specifico, all’art. 1227 c.c. “Concorso del fatto colposo del creditore[1], dettato in tema di responsabilità contrattuale[2] ma unanimemente riconosciuto applicabile anche nell’ambito della responsabilità aquiliana, per effetto del rinvio operato dall’art. 2056 c.c.
Il menzionato art. 1227 co. 1, in particolare, prevede che “Se il fatto colposo del creditore [o del danneggiato] ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate”.
Uno dei principali problemi applicativi, che la norma pone, riguarda l’ipotesi in cui la condotta del danneggiato – da vagliare sotto il profilo del potenziale concorso di colpa e della conseguente limitazione dell’obbligo risarcitorio – non sia attivo ma omissivo.
Viene in considerazione, quindi, il tema del concorso omissivo del danneggiato e, di conseguenza, della causalità omissiva. Tema lungamente dibattuto dalla giurisprudenza penale formatasi intorno alla materia dei reati omissivi impropri.
In ambito penale, la questione è stata risolta sulla base della teoria c.d. normativa, avallata dall’art. 40 c. 2 c.p., il quale letteralmente dispone che “non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”: per affermare la responsabilità penale, in altri termini, non è sufficiente richiamarsi al principio del neminem laedere o ad una generica antidoverosità sociale dell'inerzia, ma occorre che sussista, e sia individuabile caso per caso, un vero e proprio obbligo giuridico di impedire l'evento che può derivare da una norma giuridica o, quantomeno, da uno specifico rapporto negoziale (c.d. obblighi di protezione).
Trasponendo una simile impostazione all’ambito civilistico, con specifico riferimento al creditore/danneggiato che – con il proprio contegno inerte – abbia in tesi concorso a causare il danno di cui pretendere di essere risarcito, derivera che il meccanismo delineato dall’art. 1227 c.c. sarebbe destinato ad operare limitatamente all’ipotesi in cui sia individuabile una norma giuridica (ovvero una previsione contrattuale) che ponga a carico del danneggiato uno specifico obbligo giuridico di agire e, dunque, di attivarsi per evitare l’evento.
Perché sia configurabile il concorso del fatto colposo del danneggiato, in definitiva, sarebbe necessaria la c.d. colpa specifica.
Un siffatto orientamento, avallato da diverse pronunce giurisprudenziali e – da ultimo – dalla terza sezione della Corte di Cassazione[3], viene respinto dalle Sezioni Unite che, al contrario, affermano che un comportamento omissivo caratterizzato dalla colpa generica sia sufficiente a fondare il concorso di colpa del creditore/danneggiato.
Secondo Cassazione civile, Sezioni Unite, 21 novembre 2011, n. 24406, in particolare, “stante la genericità dell'art. 1227,c. I, c.c. sul punto, la colpa sussiste non solo in ipotesi di violazione da parte del creditore-danneggiato di un obbligo giuridico, ma anche nella violazione della norma comportamentale di diligenza, sotto il profilo della colpa generica”.
Rispetto agli indirizzi più restrittivi precedentemente espressi dalla giurisprudenza, Il principio di diritto declamato dai Giudici di Piazza Cavour si colloca nel solco di una maggiore responsabilizzazione del soggetto danneggiato, nella prospettiva di una più completa affermazione del corollario, desumibile dall’art. 1227 c.c., per cui al danneggiante non può far carico quella parte di danno che non è a lui causalmente imputabile.
(Altalex, 19 dicembre 2011. Nota di Raffaele Plenteda


martedì 7 febbraio 2012

Disoccupazione e assegno di mantenimento

Riprendiamo dal sito Altalex
Con una sentenza che lascerà spazio a qualche perplessità, la Cassazione stabilisce che in tema di assegno di mantenimento da parte dell’altro coniuge, non è sufficiente allegare meramente uno stato di disoccupazione, dovendosi verificare, avuto riguardo a tutte le circostanze concrete del caso, la possibilità del coniuge richiedente di collocarsi o meno utilmente, ed in relazione alle proprie attitudini, nel mercato del lavoro.
Si tratta della sentenza 9-27 dicembre 2011, n. 28870 rilasciata nello stesso giorno in cui la stessa Cassazione ha stabilito che l’ex moglie ha diritto all’assegno di divorzio anche se lavora e percepisce un reddito proprio. In realtà, i due casi sono basati su presupposti diversi anche se riconducibili alla situazione di disagio lavorativo in cui versano i singoli.
Nel caso di specie il ricorrente contesta la decisione della Corte di appello di Lecce che, nel dicembre 2007, dopo aver rilevato che l’uomo aveva trovato un’occupazione a tempo determinato, lo aveva condannato al mantenimento dei figli, affidati all’ex moglie, con 300 euro mensili. La decisione andava a modificare il precedente decreto depositato in data 8 marzo 2006 con cui il Tribunale di Brindisi omologava la separazione personale consensuale dei due coniugi, affidando alla moglie i figli minori, senza che fosse previsto alcun obbligo contributivo a carico del padre disoccupato. Da qui il ricorso per cassazione, nel tentativo per il padre di far rivivere la decisione di primo grado, in base alla permanenza dello stato di disoccupazione.
Il ricorrente formula anche il quesito da proporre alla Corte: se si possa disporre l'aumento dell'assegno in favore dei figli minori senza tener conto dei redditi delle parti, non esplicitando il ragionamento logico giuridico seguito per giungere alla decisione dell'aumento, non tenendo in alcuna considerazione le informative dalle quali emergeva che nel periodo considerato l'obbligato era disoccupato.
Tuttavia, gli Ermellini dichiarano l’inammissibilità del motivo di doglianza, a causa della formulazione del quesito di diritto in maniera non conforme alla disposizione contenuta nell'art. 366 bis c.p.c. Infatti, proseguono i giudici, nel motivo in esame sono prospettate doglianze che, intrecciandosi fra loro, ineriscono tanto a violazioni di legge, quanto a vizi motivazionali. In ogni caso, il giudice di merito aveva precisato che nel caso in cui dovesse nuovamente prospettarsi un mutamento, peggiorativo, delle condizioni economiche e reddituali del medesimo, il ricorrente potrebbe ben richiedere, a sua volta, il mutamento delle condizioni della separazione.
D’altra parte, concludono i giudici di Piazza Cavour, la mera allegazione dello stato di disoccupazione non è sufficiente per stabilire il mutamento peggiorativo del le condizioni del soggetto, dovendo necessariamente verificarsi, con attenzione alle circostanze concrete del caso, la possibilità per lo stesso di collocarsi o meno utilmente ed in relazione alle proprie attitudini nel mercato di lavoro.
Da qui la dichiarazione di inammissibilità del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
(Altalex, 16 gennaio 2012. Nota di Alessandro Ferretti)

sabato 4 febbraio 2012

Manifesto nazionale aiga per l'elezione dei consigli dell'ordine

L'aiga di Gela non ha espresso un proprio candidato per il Consiglio dell'Ordine, tuttavia vogliamo invitare i futuri consiglieri ad aderire alle linee guida indicate dal manifesto che l'aiga nazionale ha pubblicato in vista del rinnovo dei Consigli dell'Ordine.
Linee guida che si affiancano al nostro programma per il futuro.

venerdì 3 febbraio 2012

Quando la notifica del decreto ingiuntivo è inesistente

Con ordinanza 31 agosto 2011 il Tribunale di Torino ha ritenuto di aderire alla tesi prevalente in giurisprudenza, secondo cui la notificazione inesistente (ossia non effettuata) ovvero quella giuridicamente inesistente (come quella effettuata in luogo e a persona in alcun modo riferibile al debitore ingiunto) comporta l'inefficacia del decreto ingiuntivo ex art. 644 c.p.c., la quale può essere fatta valere non soltanto con la procedura di cui all'art. 188 disp. att. c.p.c. ovvero con autonoma azione ordinaria di accertamento negativo, bensì anche con l'opposizione all'esecuzione a norma dell'art. 615 c.p.c.
A portare la questione davanti al giudice di merito torinese, una donna, titolare di un'impresa individuale che, vedendosi destinataria di una procedura di espropriazione mobiliare, si opponeva all'esecuzione eccependo l'inesistenza della notifica del decreto ingiuntivo emesso nei suoi confronti in quanto inoltrato ad un recapito errato.
Ricorso accolto e procedimento esecutivo sospeso.
Il Tribunale investito ricorda, in particolare, come una recente pronuncia della Corte di Cassazione abbia affermato che “di fronte alla minaccia dell'esecuzione forzata in base ad un decreto d'ingiunzione dichiarato esecutivo per mancata opposizione, l'ingiunto, che sostenga l'inesistenza della notificazione del decreto stesso, cioè deduca che nei suoi riguardi non è mai stata eseguita un'operazione di notificazione giuridicamente qualificabile come tale , può proporre opposizione all'esecuzione forzata ex art. 615 c.p.c. E tale rimedio è proponibile, ove l'esecuzione inizi, fintantochè il processo esecutivo non si sia concluso” (Cass. Civile, sez. III, 7 luglio 2009, n. 15892).
Come da codice di rito, pertanto, il giudice designato ha assegnato termine perentorio per l'introduzione del giudizio di merito relativo all'opposizione.
(Altalex, 16 gennaio 2012. Nota di Maria Spataro)

Lavoro ed estorsioni

Riprendiamo dal sito de Il Sole 24 Ore
Obbligare un lavoratore a scegliere tra i propri diritti e una mancata assunzione o un licenziamento è un'estorsione. Ora lo sa, anche se probabilmente lo sapeva anche prima, l'imprenditore, indagato per estorsione, che si è rivolto alla Corte di cassazione con la speranza di ottenere la revoca degli arresti domiciliari incassando il no degli ermellini. Alla base del verdetto negativo, emesso dalla seconda sezione con la sentenza n. 4290 (si legga il testo sul sito di Guida al diritto) il timore che le misure meno afflittive non fossero sufficienti a scongiurare nuovi "interventi" dell'imprenditore su soggetti che erano stati parte della sua passata vita aziendale o ne facevano parte ancora.

Le minacce

Questi soggetti, non proprio fortunati, erano gli operai assunti nell'azienda del ricorrente con un "patto" che prevedeva il pagamento di un assegno "virtuale", che rispettava il tetto previsto dal contratto collettivo nazionale, peccato che parte dei soldi dovesse essere restituita brevi manu e in contanti. Per chi non accettava il "compromesso" c'era la minaccia della mancata assunzione o del licenziamento. Non contento l'imprenditore si impegnava anche a fare terra bruciata attorno ai "ribelli" mettendo in guardia altri industriali. Una "promessa" messa in atto come risultava dalle intercettazioni telefoniche. Tutto questo per l'indagato era il risultato di una "libera contrattazione", nell'ambito della quale la deroga a quanto previsto dal contratto nazionale o di settore può dar luogo al massimo alla violazione della normativa in tema di lavoro. Nessun dubbio per gli ermellini che nella situazione analizzata gli arresti domiciliari fossero meritati. Le modalità della libera contrattazione sono, infatti, diverse.

Giudici e ritardi

Riprendiamo dal sito Altalex
La giustificazione delle ragioni del ritardo nel compimento degli atti inerenti all’esercizio delle funzioni è definibile quale “causa di giustificazione non codificata”, rilevante oggettivamente o soggettivamente, caratterizzata da “elasticità applicativa” stante l’impossibilità di enumerare ogni situazione idonea a giustificare la mancata osservanza del precetto. Da ciò discende che il ritardo, grave o reiterato, rappresenta, di per sé, illecito.
Questo il dictum delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella pronunzia n. 528 depositata il 17 gennaio 2012.
Un giudice civile viene sottoposto a giudizio disciplinare per violazione delle fattispecie ex art. 18 del RD 511/1946 e artt. 1 e 2 comma 1 lett. q del D.lgs. 109/2006, addebiti mossi a seguito di una verifica ispettiva presso gli uffici giudiziari a cui era addetto. In particolare venivano ravvisati ritardi nel deposito di 181 sentenze monocratiche e di 268 ordinanze riservate, protratti oltre il triplo del termine concesso per il deposito della minuta (30 giorni per le sentenze monocratiche, 5 giorni per le ordinanze riservate).
La sezione disciplinare del CSM, all’esito dell’istruttoria, pronuncia sentenza di assoluzione del giudice “per essere risultati esclusi gli addebiti”.
Siffatti addebiti vengono esclusi dal giudice disciplinare sul presupposto che i ritardi risultavano, nella specie, motivati: nell’arco temporale analizzato, il giudice era stato assegnato a plurime funzioni, la cui espletazione aveva richiesto un impegno quasi quotidiano per la preparazione e il compimento delle udienze, conservando una produttività elevata e costante.
Avverso la pronuncia disciplinare il ministero della giustizia propone ricorso. Le Sezioni Unite lo accolgono, cassando la decisione e rinviando il procedimento alla sezione disciplinare del CSM in altra composizione.
Per le Sezioni Unite la motivazione delle ragioni dei ritardi ha natura di causa di giustificazione non codificata, rilevante sul piano oggettivo o soggettivo: nel caso si trattava di “mancanza di “riprovevolezza” della condotta, caratterizzata da una indiscutibile “elasticità” applicativa […] attesa la impossibilità, sul piano fattuale non meno che giuridico, di elencare tassativamente e analiticamente tutte le situazioni astrattamente idonee a giustificare l’inosservanza della norma precettiva […]”.
Il ritardo grave o reiterato integra di per sé la fattispecie incriminatrice, attesa la tipizzazione delle condotte illecite operata dal D.lgs. del 2006, così che l’addebito mosso al giudice richiede non la prova, da parte dell’accusa, della violazione dell’obbligo di diligenza, bensì l’allegazione, da parte dell’incolpato, di circostanze utili a dimostrare la giustificabilità del ritardo che, qualora distinto dal superamento di ogni limite di ragionevolezza, si sostanzia in un’ipotesi di denegata giustizia. Siffatta condotta contrasta col diritto delle parti alla durata ragionevole del processo.
(Altalex, 31 gennaio 2011. Nota di Laura Biarella)

Pubblicare sul blog di Aiga Gela

Chiunque voglia pubblicare sul blog dell'aiga di Gela articoli inerenti il diritto e l'avvocatura può inviare il testo o il link, unitamente al titolo dell'articolo, direttamente al seguente indirizzo email: aigagela@gmail.com.

giovedì 2 febbraio 2012

Retribuzioni ai praticanti

Riprendiamo dal sito de "Il sole 24 ore"

È tempo di crisi per i praticanti inglesi. E la Solicitors Regulation Authority (SRA), l'organizzazione che sovrintende la categoria forense in Inghilterra, torna alla carica con un dibattito sempre attuale negli studi legali, inglesi e italiani. Quanto devono essere pagati i professionisti che stanno completando il periodo di formazione? Negli studi d'affari infatti i praticanti sono costo, ma allo stesso tempo risorsa in quanto anche senza l'abilitazione per esercitare la professione possono partecipare alle riunioni con i clienti e svolgere la fondamentale ricerca documentale.
A questo proposito, la SRA ha appena pubblicato un questionario in cui chiede in una consultazione pubblica su quanto valore abbia un salario minimo alla luce delle liberalizzazioni introdotte in Inghilterra dal Legal Services Act.

Al momento, i praticanti inglesi hanno un salario minimo garantito di 18590 sterline per chi lavora a Londra, e di 16650 sterline per chi lavora in altre città. I salari minimi sono stati introdotti in Inghilterra nel 1982, con l'obiettivo di attrarre i candidati migliori verso la professione, ma sembrano oggi uno strumento obsoleto in quanto il mercato è da tempo saturo. Uno dei rischi del salario minimo sarebbe peraltro quello di rendere più difficile la diversificazione della nuova generazione di professionisti, attenzione che in inglese prende il nome di diversity.
Secondo una ricerca appena svolta da Legal Futures infatti, il 42% dei praticanti che fa parte di una minoranza etnica fa parte di una minoranza, contro il 27% dei praticanti di origine inglese. Il mercato legale inglese è inoltre spaccato in due differenti mondi. Da una lato quello degli studi d'affari della City, dove il salario minimo è almeno raddoppiato per i praticanti che ogni anno entrano in studio. Dall'altro quello degli studi di provincia dove il numero dei professionisti si conta sulle dita di una mano. In queste realtà, la vita e la retribuzione dei praticanti è ben diversa. La stessa divisione si ritrova sul mercato italiano. Negli studi d'affari di matrice anglosassone, gli avvocati in erba arrivano a ricevere una retribuzione annua lorda che si oscilla intorno ai 35mila euro l'anno, con picchi maggiori per gli studi americani.
Stando poi alla ricerca "Professionisti: a quali condizioni?" svolta da Ires e Cgil, solo il 43,8% dei praticanti avvocato riceve un compenso mensile, corrisposto come rimborso spese che nella maggior parte dei casi varia tra i 500 e i 700 euro al mese. Le normative discusse negli ultimi 2 anni relative alla liberalizzazione della professione forense hanno fatto in diverse occasioni riferimento all'introduzione di un giusto compenso per i praticanti. Che tuttavia, senza una quantificazione oggettiva come quella inglese, non introdurrebbe una vera novità nel mercato. La norma introdotta con la "legge quadro" della scorsa estate relativa all'equo compenso è stata tuttavia eliminata dal testo definitivo del decreto sulle liberalizzazioni approvato nei giorni scorsi dal Governo.
Il dibattito, sia in Italia che in Inghilterra, resta dunque aperto.

mercoledì 1 febbraio 2012

Un programma per il futuro

Per andare avanti bisogna sapere quale direzione prendere, altrimenti difficilmente si arriverà da qualche parte. Con questo spirito abbiamo delineato un programma da presentare ai futuri consiglieri dell'Ordine degli Avvocati, nella speranza che questi nostri intenti si trasformino nella direzione migliore per la giovane avvocatura.



martedì 31 gennaio 2012

Comunicato Stampa aiga nazionale


Comunicato Stampa del 31.01.2012
GIUSTIZIA. PRESIDENTE SENATO SCHIFANI RICEVE DELEGAZIONE AIGA
GRECO: GRATI PER ATTENZIONE VERSO GIOVANI AVVOCATI COLPITI DA CRISI
«Siamo grati al presidente del Senato Renato Schifani per l’attenzione rivolta ai giovani avvocati in occasione dell’incontro di ieri pomeriggio, che testimonia l’attenzione della seconda carica dello Stato verso le problematiche dei giovani professionisti, colpiti duramente da una crisi che dura da diversi anni, con costanti difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro e di affermazione professionale. Abbiamo evidenziato che le ultime norme di riforma delle professioni, ben lungi da essere liberalizzatrici, si contraddistinguono per un intento punitivo verso professionisti, senza un reale vantaggio per le giovani generazioni». A sostenerlo, in una nota, Dario Greco, presidente dell'Aiga, Associazione italiana dei giovani avvocati, al termine dell'incontro a Palazzo Madama con il presidente dell'Assemblea Renato Schifani. Il leader dei legali under45 ha sottolineato anche di aver fatto presente «come l’ultimo decreto legge del 24/1/2012 abbia addirittura abrogato la norma che imponeva la corresponsione di un equo compenso ai praticanti».

lunedì 30 gennaio 2012

Avvio lento per la conciliazione

Riprendiamo da "Il sole 24ore"

MILANO. Crescono i procedimenti definiti e aumentano anche quelli andati a buon fine. Ma la conciliazione stenta a decollare. Anche i dati più recenti forniti dal ministero della Giustizia in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario in Corte di cassazione fotografano una situazione che non accenna a sbloccarsi.
Dai dati aggiornati a tutto novembre, e quindi a poco più di otto mesi di operatività della mediazione come condizione di procedibilità in numerose materie del contenzioso civile, risulta che, malcontati, sono circa 5.000 i procedimenti che si sono conclusi con un accordo tra le parti. Su un totale, però, di 51.921 iscritti.
Un numero che si ottiene tenendo presente che quelli definiti sono stati 32.685, con una pendenza finale di 19.978. Ma di quelli definiti solo il 30,6% si è concluso con l'accordo delle parti, mentre in tutti gli altri (quasi il 70%) una delle parti non è neppure comparsa preferendo rimanere contumace. È vero che nel 52% dei casi in cui le parti si presentano davanti a un organismo di conciliazione un'intesa si trova. Risultato circa 5.000 accordi.
A sottolineare l'impasse ci sono poi anche le considerazioni del primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, che ha ricordato come «dalle relazioni trasmesse dai presidenti delle corti di appello risulta, pur con l'avvertenza di una valutazione basata su dati iniziali e non consolidati, la constatazione, allo stato, di una scarsa incidenza delle procedure di mediazione sulla deflazione del contenzioso civile. Crediamo che si possa, realisticamente, formulare un giudizio più positivo in relazione all'incremento rilevato nel secondo periodo di rilevamento statistico».
Il più alto numero di iscrizioni ha riguardato controversie in materia di diritti reali (10.383), di locazione (5.886), di contratti bancari (4.757), di contratti assicurativi (4.221), di risarcimento danni da responsabilità medica (3.806). Modeste invece sono state le iscrizioni in relazione a controversie riguardanti patti di famiglia (53). Il maggior numero di definizioni ha riguardato controversie in materia di diritti reali (6.277), di locazione (3.788), di contratti assicurativi (2.825), di contratti bancari (2.724) e di risarcimento danni da responsabilità medica (2.373).
Il numero maggiore di procedimenti pendenti riguarda i diritti reali (4.145), i contratti di locazione (2.117), i contratti bancari (2.095) e il risarcimento danni da responsabilità medica (1.524). Minoritaria poi la partecipazione degli avvocati al procedimento sia in caso di assistenza ai proponenti (16,9%) sia in caso di assistenza agli aderenti (20,5%). Sul punto la tensione è poi destinata a rimanere alta. E le prossime giornate a risultare a loro modo decisive. Perché il ministero, almeno per ora, non molla la presa, ma ha dovuto incassare la decisione dei senatori della commissione Giustizia che hanno affossato la norma del decreto legge con cui si anticipava la sanzione alla parte contumace. Una misura inserita proprio per fare da deterrente alla condotta della parte che neppure si presenta davanti al conciliatore.
Il 6 febbraio, poi, altro passaggio cruciale con l'udienza della Corte costituzionale che dovrà decidere sulla legittimità di passaggi chiave della normativa su questioni sollevate dal Tar del Lazio. Con un verdetto che potrebbe anche arrivare prima del 21 marzo quando dovrà entrare in vigore la seconda tranche della conciliazione obbligatoria con l'estensione al condominio e al risarcimento danni da incidente stradale. Il tutto in attesa che sulla disciplina italiana si pronunci anche la Corte di giustizia europea per i profili di coerenza con le indicazioni dell'Unione europea.



Il presidente del CCBE (Ordini forensi europei), Marcella Prunbauer-Glaser, scrive al premier Monti

Egregio Sig. Presidente del Consiglio dei Ministri
Gentile Sig.ra Ministro della Giustizia
Le scrivo in nome e per conto del CCBE, il Consiglio degli Ordini Forensi europei. Il CCBE è l'organizzazione rappresentativa di circa 1 milione di avvocati europei, costituita dagli Ordini forensi di 31 paesi, membri a pieno titolo, e di 11 paesi col ruolo di Associati e Osservatori.
Il CNF - Consiglio Nazionale Forense - ha recentemente sottoposto all'attenzione del CCBE la nuova Legge di Stabilità n. 183/2011, che prevede una serie di interventi di rilievo per la professione legale. E‟ nostro intendimento che l‟introduzione di queste nuove norme sia dovuta a circostanze legate alla stabilità finanziaria e allo sviluppo economico del paese.
Le assicuro che il CCBE è consapevole del particolare momento di difficoltà che gli Stati membri, compresa l‟Italia, stanno affrontando, e anche dell„urgente necessità di riforme economiche e finanziarie. Il CCBE ha tuttavia difficoltà a capire il legame che i governi, ivi compreso quello italiano, sembrano voler creare tra la professione di avvocato e la crisi economica nei rispettivi paesi. Gli avvocati, infatti, sono colpiti da misure che si inseriscono nel contesto di più ampie riforme finanziarie ed economiche, sebbene non siano responsabili della situazione economica del loro paese e del debito pubblico.
Inoltre, molte delle riforme che interessano la professione - comprese quelle recentemente approvate in Italia - sono basate su un approccio puramente economico che, da un lato, non tiene conto del ruolo degli avvocati nella società e nell'amministrazione della giustizia - che è essenziale in ogni società democratica - e, dall‟altro, non è accompagnato da un‟analisi approfondita dell‟impatto potenziale di tali riforme sull‟amministrazione della giustizia.
Ad una prima analisi, il CCBE ritiene che le modifiche contenute nella Legge di Stabilità sollevino questioni fondamentali alla luce delle norme di riferimento europee e internazionali, tra cui si richiamano la Raccomandazione del Consiglio d'Europa (2002) sulla libertà di esercizio della professione legale, e i Principi fondamentali dell‟ONU sul ruolo dell‟avvocato (1990), che sanciscono l‟indipendenza della professione legale, quale componente basilare di un sistema giudiziario efficiente, nonché caposaldo di una società democratica basata sullo stato di diritto. La Legge di Stabilità solleva inoltre problemi anche alla luce della giurisprudenza europea.
In particolare, le preoccupazioni del CCBE si riferiscono alle nuove disposizioni che riguardano le cc.dd. “alternative business structures” (modelli alternativi di business). E‟ nostro intendimento che queste norme, che introducono nell‟ordinamento italiano le società di capitali tra professionisti, consentono il controllo di maggioranza anche a soggetti estranei alla professione. La legge, tuttavia, non sembra prevedere alcuna misura di salvaguardia nei confronti dei valori fondamentali della professione legale (indipendenza, assenza di conflitti di interesse, segreto professionale).
Il CCBE crede fermamente nell‟esistenza di motivazioni, estranee ad una logica puramente economica, che depongono decisamente contro l'introduzione di modelli organizzativi di questa natura. I soggetti estranei alla professione non sono, di per sé, soggetti agli stessi doveri degli avvocati. Ciò può facilmente condurre alla nascita di situazioni conflittuali, per effetto delle quali gli avvocati possono essere esposti a pressioni da parte degli azionisti esterni di maggioranza nello svolgimento della propria attività professionale; il che non solo sarebbe contrario ai principi fondamentali della professione, ma, in ultima analisi, si risolverebbe in un pregiudizio per i clienti. Il dovere dell‟avvocato di difendere il proprio cliente in piena indipendenza e nell'interesse esclusivo di quest'ultimo, di evitare conflitti di interesse e di rispettare il segreto professionale, è in pericolo specialmente quando l‟avvocato esercita la propria attività all'interno di strutture organizzative che, di fatto o di diritto, consentono a soggetti estranei alla categoria di avere un controllo rilevante sull‟attività della struttura stessa (si veda in merito la posizione del CCBE del 2005).
In questo contesto, vorremmo richiamare la sentenza della Corte di Giustizia UE nel caso Wouters (C-309/99), in cui la Corte è stata chiamata a decidere sulla compatibilità con il Trattato UE della normativa olandese che vieta la collaborazione integrata tra avvocati e dottori commercialisti. La Corte - riferendosi ai valori fondamentali di cui sopra - ha ritenuto che il Nederlandse Orde Van Advocaten (Ordine olandese degli avvocati) “ha potuto ragionevolmente ritenere che la detta normativa, malgrado gli effetti restrittivi della concorrenza ad essa inerenti, risultasse necessaria al buon esercizio della professione di avvocato, cosi come organizzata nello Stato membro interessato”.
Vorremmo anche segnalare che altri Stati membri potrebbero opporsi all‟insediamento di tali modelli organizzativi sul proprio territorio, in conformità all'articolo 11 della direttiva 98/5/CE relativa all‟esercizio permanente della professione di avvocato in Stati membri diversi da quello di origine, in forza del quale: "quando le regole fondamentali che disciplinano la costituzione dell'attività di tale studio collettivo [leggasi, esercizio in comune della professione] nello Stato membro di origine siano incompatibili con le regole fondamentali derivanti da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative dello Stato membro ospitante, queste ultime regole si applicano se ed in quanto la loro osservanza sia giustificata dall'interesse generale della tutela dei clienti e dei terzi".
Nella maggior parte delle giurisdizioni europee la prestazione di servizi legali non è consentita in strutture in cui soggetti estranei alla professione detengono in tutto o in parte il capitale sociale, utilizzano la denominazione con la quale viene esercitata la professione o esercitano, di fatto o di diritto, poteri decisionali. Alcune giurisdizioni europee consentono forme di partnership multidisciplinari o forme di controllo esterno, ma solo sotto rigorose condizioni. In alcune giurisdizioni, per esempio, i soggetti estranei alla professione possono diventare partner di uno studio legale, purché siano membri di una professione regolamentata il cui codice di condotta sia equiparabile a quello della professione legale.
Vi esortiamo pertanto a prendere in considerazione le riflessioni sopraesposte nel contesto delle prossime fasi del processo decisionale e a garantire che i valori fondamentali della professione - che sono di cruciale importanza per una società democratica basata sullo stato di diritto - siano salvaguardati.
Sarò lieta di discuterne personalmente con Lei o con i Suoi collaboratori, posto che si tratta di questioni di importanza capitale per la nostra organizzazione.
[Solo per la lettera al Ministro della Giustizia]:
In virtù della Sua esperienza di avvocato, sarà senza dubbio consapevole dell‟importanza di proteggere il rapporto di fiducia tra l‟avvocato e il suo cliente contro le indebite intrusioni da parte dello Stato, nonché della necessità di salvaguardare l‟indipendenza decisionale dell‟avvocato, anche al fine di tutelare efficacemente i diritti e le libertà dei cittadini.
Cordialmente,
Marcella Prunbauer-Glaser
Presidente del CCBE
Traduzione a cura di: Avv. Gaia Pandolfi

venerdì 27 gennaio 2012

Incontro formativo 16/02/2012 - La previdenza forenze

L'AIGA di Gela, con il patrocinio del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati, organizza per il 16/02/2012 un incontro formativo sul tema della previdenza forense e sui suoi aspetti pratici. L'incontro è fissato per le 15,30 presso l'aula penale del Palazzo di Giustizia e da diritto a tre crediti formativi.
La partecipazione è del tutto gratuita




Un asilo, un sondaggio

Abbiamo avviato un piccolo sondaggio per promuovere, insieme al Consiglio dell'Ordine, l'apertura di un asilo nido presso i locali del Palazzo di Giustizia.
Vi chiediamo di votare utilizzando le caselle nella barra di fianco, in modo da riuscire ad avere un'idea, seppur generica, sul bisogno di un sostegno di questo tipo.

...spunti di riflessione...

Cari Colleghi, vi consigliiamo di leggere le considerazioni che il Presidente nazionale dell' AIGA ha ritenuto di dover esprimere in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario. Personalmente, nell'ottica del " fare " credo che dallo stesso possano emergere spunti di riflessione che vadano nella giusta direzione.



GIUSTIZIA. AIGA: AVVOCATI NON RESPONSABILI ENORME CONTENZIOSO

GRECO: CRISI COLPISCE SOGGETTI DEBOLI CATEGORIA, GIOVANI E DONNE

«Abbiamo deciso di non partecipare alle cerimonie inaugurali dell’anno giudiziario per ribadire ancora una volta il grido d’allarme che i Giovani Avvocati da anni denunciano per la tenuta democratica del nostro Paese e del sistema Giustizia: se è certamente vero che una giustizia lenta è malagiustizia, è altrettanto vero che una giustizia frettolosa, una giustizia dai costi d’accesso irragionevoli, una giustizia sommaria è denegata giustizia. La principale preoccupazione di chi amministra la macchina giudiziaria deve essere il sacro rispetto dei valori costituzionali del diritto di difesa e del giusto processo in contraddittorio tra le parti, perciò spiace constatare che il primo presidente della Cassazione sappia valutare la produttività dei magistrati soltanto sulla quantità delle decisioni e non sulla qualità delle stesse, ritenendo gli avvocati responsabili dell’enorme contenzioso italiano, senza spendere una parola per le ingenti carenze di organico in magistratura, causate anche dai magistrati fuori ruolo perché destinati agli uffici ministeriali». Lo afferma in una nota Dario Greco, presidente dell'Aiga, Associazione italiana dei giovani avvocati, nel giorno dell'inaugurazione dell'anno giudiziario presso la Corte di Cassazione. Secondo il leader dei legali under45 «c'è preoccupazione per  il gravissimo stato di crisi in cui versa l’Avvocatura Italiana. Le recenti statistiche diramate dalla Cassa di Previdenza dimostrano un continuo calo del reddito pro-capite degli avvocati, in persistente discesa dal 2007, con una perdita di ricchezza dell’avvocato medio italiano del 12% (comprensivo dell’inflazione) nel triennio 2008-2010. Crisi che colpisce maggiormente i soggetti deboli della nostra categoria: i giovani e le donne». Il presidente dell'Aiga aggiunge che la categoria ha deciso di protestare «perché non si sta liberalizzando l’economia, ma si stanno ampliando soltanto le rendite di posizioni della grande impresa, delle banche e delle assicurazioni, mentre il numero dei notai aumenta solo sulla carta di 500 unità. Se davvero si vuole dare slancio all’economia – conclude Greco – si liberalizzi il mercato immobiliare consentendo anche agli avvocati di stipulare gli atti di compravendita: questa è la vera riforma di cui in cittadini hanno bisogno».

Liberalizzazioni, commento al Decreto Monti

Riprendiamo dal sito Altalex 

 1. Il primo e il quarto comma: l’abrogazione delle tariffe professionali.

Propagandata come una delle maggiori innovazioni contenute nel decreto legge sulle liberalizzazioni, in realtà l’abrogazione delle tariffe professionali ha una valenza puramente simbolica.


Lo scardinamento del sistema tariffario, infatti, era già stato realizzato con l’abolizione della sua obbligatorietà, quanto ai minimi, abolizione risalente ormai ad oltre cinque anni fa (con il
d.l. “Bersani”, del 4 luglio 2006, n. 223, convertito in l. 4 agosto 2006, n. 248).

Mi risulta quindi del tutto oscuro comprendere come l’abrogazione di un apparato di regole da tempo non più cogente possa avere effetti, di qualunque segno, sulla crescita economica e sull’incremento della concorrenza. A ben vedere, infatti, questo nessuno lo ha convincentemente spiegato, e prova ne sia che quasi sempre nei resoconti giornalistici, che hanno preceduto la gestazione del
decreto legge 24 gennaio 2012, n. 1, veniva fornita la fuorviante indicazione secondo cui il Governo Monti si sarebbe apprestato ad abolire le tariffe minime obbligatorie, come se queste non fossero già appartenute alla dimensione della storia del diritto, e non a quella del diritto vigente.

Per la verità, un serio approccio al tema qui in discussione avrebbe dovuto partire da un’analisi (mi verrebbe da dire review, per usare un termine in voga) degli effetti che in concreto l’abrogazione dell’obbligatorietà delle tariffe minime ha determinato sul versante dei benefici per i consumatori, nonché per le micro, piccole e medie imprese: se condotta in modo adeguato, tale analisi avrebbe da un lato probabilmente portato a qualche sorpresa in senso negativo per gli oppositori del sistema tariffario, mentre dall’altro avrebbe certamente consentito di acclarare i significativi vantaggi di cui hanno beneficiato le grandi imprese, ed in generale i grossi clienti, a discapito dei professionisti.


In conclusione, l’unica novità rilevante sembra dunque rappresentata dal fatto che, oltre ai minimi tariffari, risultano oggi aboliti anche i massimi, sicché il professionista potrà pattuire qualunque compenso con il cliente, purché adeguato all’importanza dell’opera, come si legge nel contesto del terzo comma della disposizione in esame. Si passa, dunque, da un sistema in cui l’adeguatezza del compenso all’importanza dell’opera veniva ad essere tradotta in numeri (calibrati sulla complessità dell’incarico e sul suo valore economico), ad un sistema in cui la valutazione della sua sussistenza rischia di rimanere affidata, nei fatti, a meccanismi vagamente equitativi, sulla cui pericolosità avrò modo di tornare più avanti.


Lascio al lettore il compito di stabilire se questo sia un passo avanti o indietro, in un mondo nel quale la misurabilità in termini numerici anche delle attività umane intellettuali viene considerato un valore.


2. Il secondo comma: le tariffe escono dalla porta … e, in quanto indispensabili, rientrano dalla finestra sotto forma di “parametri”.


Abolite le tariffe, il Governo si è immediatamente reso conto della necessità della loro esistenza, in un sistema razionale. Non potendo tuttavia smentire se stesso, si è ben guardato dal chiamarle con il loro nome, e le ha chiamate “parametri”, affidandone la determinazione ad emanandi decreti ministeriali.


Solo a chi analizza la questione con superficialità e preconcetto può sfuggire il fatto che ci sono dei casi in cui l’esistenza di una tariffa è imprescindibile, direi ontologicamente, a meno di non volersi affidare al criterio veterogiurdico dell’equità, come peraltro si leggeva in alcune bozze fatte circolare nella settimana precedente il Consiglio dei Ministri di venerdì scorso.


Senza pretesa di essere esaustivi, si rileva come un primo caso sia quello in cui è l’autorità giudiziaria a dover stabilire l’entità del compenso spettante al professionista: ciò accade, ad esempio, in occasione del conferimento di incarichi a consulenti tecnici d’ufficio, nell’ambito dei procedimenti giudiziari. L’esigenza di fornire al giudice parametri certi, al fine di evitare abusi o eccessi di discrezionalità (in un senso o nell’altro), è talmente evidente da non meritare particolari spiegazioni.


Un secondo caso è quello in cui il giudice deve stabilire quale sia l’ammontare degli onorari legali, che la parte vittoriosa in un processo può recuperare a carico di quella soccombente. Sul punto è forse superfluo precisare che qui la quantificazione non può essere sic et simpliciter ragguagliata a quanto pattuito tra l’avvocato della parte vittoriosa e quest’ultima, anzitutto per l’elementare ragione che il contratto ha effetto solo tra le parti e non nei confronti dei terzi (art. 1372 c.c.). In ogni caso, se così fosse, non si conterebbero i casi di condotte speculative, a discapito della parte soccombente, specie se notoriamente solvibile (ad esempio: io, avvocato, so che una causa civile contro un’assicurazione è molto probabilmente destinata ad essere vinta; concordo con il mio cliente un onorario esorbitante, e tale determinazione risulterà vincolante per l’assicurazione soccombente).


Un terzo caso è quello in cui, non essendo stato previamente convenuto dalle parti il compenso (od essendo stato convenuto con modalità affette da invalidità, come si dirà tra breve), il professionista abbia comunque prestato la propria opera a favore del cliente. Ai sensi dell’art. 2233 c.c., è ancora una volta il giudice a dover stabilire l’entità del compenso, se sorge controversia in merito tra il cliente ed il professionista. Relativamente a questa ipotesi va subito precisato, anticipando quello che dirò a margine del terzo comma, che l’inottemperanza all’obbligo di pattuizione per iscritto del compenso non ha (né potrebbe avere, pena la manifesta incostituzionalità) come conseguenza quella della perdita del diritto del professionista a vedere remunerata l’attività comunque in concreto svolta.


Ciò posto, il Governo – come si è già accennato – aveva in un primo tempo ritenuto di poter risolvere i problemi in questione attraverso l’affidamento al giudice di un indiscriminato potere equitativo. La marcia indietro è stata verosimilmente determinata dalla presa d’atto che in tal modo si sarebbe venuto a creare un enorme contenzioso sulla correttezza di valutazioni giudiziarie puramente equitative, svincolate da qualunque criterio predeterminato. A quel punto anche la più cieca furia iconoclasta nei confronti delle tariffe si è dovuta arrendere (anche se, come dirò tra breve, non del tutto) di fronte alla totale irrazionalità dell’unica alternativa concretamente individuabile.


L’evidente fretta con la quale è stato scritto, all’ultimo momento, il comma qui in esame, ne spiega peraltro le grossolane lacune.


La prima è rappresentata dal fatto che non si individua alcun termine per l’emanazione dei decreti ministeriali contenenti i “parametri” ai quali gli organi giurisdizionali dovranno attenersi per la liquidazione del compenso dei professionisti, né si fornisce alcuna indicazione su quali debbano essere i principi generali cui ci si dovrà attenere, a livello ministeriale, in sede di elaborazione dei “parametri” medesimi: l’una e l’altra circostanza fanno prospettare il dubbio circa la tenuta costituzionale della norma, così come oggi è formulata.


La seconda è costituita dal fatto che non si prevede alcunché in ordine alla disciplina intertemporale, da applicarsi fino al momento dell’emanazione dei decreti ministeriali. Ciò determina un’evidente carenza, che peraltro neppure potrebbe essere colmata attraverso l’equità, visto che opportunamente ogni riferimento a quest’ultima è stato espunto dal testo del decreto legge.


Inevitabilmente, dunque, la soluzione-ponte non potrà che essere quella di continuare a riferirsi alle attuali tariffe, ancorché abrogate, perché esse rappresentano, ad oggi, l’unico parametro di riferimento razionale, al quale è possibile affidarsi senza rischiare di incorrere in una censura di arbitrarietà.


È comunque del tutto probabile che, durante l’iter di conversione del decreto legge, a queste lacune venga ovviato nell’unico modo razionalmente ipotizzabile, e cioè dichiarando l’ultrattività delle attuali tariffe professionali, sino all’emanazione dei decreti ministeriali contenenti i “parametri”.


Ovviamente è poi facile prevedere che il conflitto tra Governo e categorie professionali finirà per trasferirsi sul metodo e sul merito degli emanandi “parametri”. È pressoché certo, infatti, che le professioni vorranno essere quanto meno consultate, in sede ministeriale, in vista dell’adozione dei decreti, ancorché ciò non sia previsto dalla norma, così come attualmente configurata. Una tale pretesa, peraltro, non potrebbe essere tacciata di corporativismo, posto che la questione attiene pur sempre all’attribuzione di un valore economico al lavoro di qualcuno.


Infine, con un inserimento dell’ultimissima ora (non a caso assente dalle versioni del testo del decreto legge, pubblicate sui quotidiani di sabato scorso), si è precisato che “l’utilizzazione dei parametri nei contratti individuali tra professionisti e consumatori o microimprese dà luogo alla nullità della clausola relativa alla determinazione del compenso ai sensi dell’art. 36 del
decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206”.

Come ho anticipato, si ripropone qui quella avversione ideologica e preconcetta nei confronti delle tariffe, che tuttavia finisce, a ben vedere, per rivelarsi del tutto illogica, e comunque destinata a restare sul terreno della pura declamazione.


Detto, infatti, che la norma sancisce comunque, sia pure indirettamente, la piena validità della relatio ai “parametri”nei rapporti tra professionisti e soggetti diversi dai consumatori e dalle microimprese, non è dato in realtà comprendersi per quale ragione debba ritenersi affetta da nullità, in quanto vessatoria, una clausola contrattuale che operi un rinvio a criteri e valori, quali quelli ministeriali, cui non potrebbe giuridicamente venire negato il crisma dell’adeguatezza, pena la loro illegittimità azionabile dinanzi agli organi di giustizia amministrativa.


In ogni caso, come anticipato, la declaratoria di nullità parziale della clausola contrattuale di rinvio ai “parametri” ministeriali, finirebbe per determinare un singolarissimo cortocircuito, per cui il giudice – dichiarata la nullità – dovrebbe comunque poi provvedere a stabilire ex art. 2233 c.c. l’entità del compenso spettante al professionista, e per fare ciò altra possibilità non avrebbe, che quella di utilizzare i medesimi “parametri”, con buona pace della loro espunzione dal regolamento negoziale.


3. Il terzo comma: compenso, preventivo e obblighi informativi.


La previsione dell’obbligo per il professionista di fornire il preventivo, insieme a quella relativa all’abrogazione delle tariffe, costituisce la novità maggiormente enfatizzata sugli organi di stampa.


In realtà la configurazione della norma sul punto è piuttosto illogica e confusa, e verosimilmente dovrà essere fatta oggetto quanto meno di ampio restyling ad opera del Parlamento.


Ma andiamo con ordine. La norma esordisce stabilendo che il compenso del professionista è pattuito per iscritto al momento del conferimento dell’incarico. Come ogni altra violazione delle disposizioni contenute nel comma in esame, la mancata pattuizione per iscritto del compenso costituisce illecito disciplinare del professionista, e ciò per espressa statuizione contenuta nella parte finale del comma medesimo.


Qui si pone peraltro un primo interrogativo, e cioè quello relativo all’opportunità, se non alla legittimità, che sia la legge dello Stato a sancire direttamente la natura di illecito disciplinare di determinate condotte od omissioni, nell’ambito di un sistema ordinistico, quale ancora è – ed è destinato a rimanere, stando ai provvedimenti legislativi sinora approvati – quello delle professioni.


A parte ciò, è comunque evidente che, alla luce del testo in esame, l’unica sanzione riconducibile alla mancata pattuizione per iscritto del compenso non possa che essere quella disciplinare, dovendosi tassativamente escludere che, ad esempio, essa possa condurre alla nullità civilistica del contratto tra professionista e cliente, ovvero alla perdita del diritto del professionista a vedere remunerata l’attività comunque svolta in favore del cliente. Il contratto d’opera professionale, infatti, è un contratto a titolo oneroso, sicché giammai esso potrebbe venire trasformato in contratto a titolo gratuito, a causa di un’inottemperanza di indole formale.


Sempre in tema di compenso, la norma prosegue statuendo, letteralmente, che la relativa misura, “previamente resa nota al cliente anche in forma scritta se da questi richiesta, deve essere adeguata all’importanza dell’opera, e va pattuita indicando per le singole prestazioni tutte le voci di costo, comprensive di spese, oneri e contributi”.


Ebbene, qui emergono con evidenza proprio quei profili di illogicità e confusione in precedenza segnalati, oltre che tutta una serie di possibili equivoci interpretativi.


Il primo profilo concerne proprio il concetto di preventivo (termine peraltro scomparso nella lettera della versione definitiva del decreto legge, ma rimasto nella sostanza). Sia nel linguaggio comune, che nella pratica degli affari, sia infine nella terminologia legale (si pensi, ad esempio, alla materia dei bilanci) un preventivo è per sua natura qualcosa di provvisorio, e destinato a variare in relazione ai concreti accadimenti inerenti, ad esempio, ad un contratto, o ad un rapporto, che dura nel tempo: non a caso al preventivo segue, esaurita la prestazione, o concluso il periodo di riferimento, il consuntivo.


Del tutto singolarmente, invece, nella disposizione in esame si fa implicitamente riferimento solo al preventivo (mentre non si parla di consuntivo), ed il requisito della redazione scritta del preventivo, se richiesta dal cliente, si sovrappone al requisito della pattuizione scritta del compenso, in tal modo determinandosi una sostanziale incomprensibilità lessicale, prima ancora che giuridica, del testo normativo.


Con il che, delle due l’una. O si ammette, come logica vorrebbe, che quanto indicato nel preventivo possa poi, in sede di consuntivo, essere fatto oggetto di aumento (o di diminuzione), in relazione alla concreta prestazione erogata dal professionista, ma in realtà ciò confliggerebbe con la lettera della norma, che – come si è visto – non parla di consuntivo, e dalla quale si evince che il preventivo rappresenta in sostanza la modalità di comunicazione della misura del compenso.


Per contro, se si afferma l’invariabilità del compenso rispetto a quanto indicato nel preventivo, dovrebbe senz’altro ricavarsi la totale irrazionalità di una norma (e, dunque, la sua incostituzionalità), che, così configurata, imporrebbe al professionista di prevedere sin dall’inizio l’entità totale del suo compenso, in relazione ad una prestazione quasi sempre del tutto incerta quanto alla sua durata, alle specifiche attività in cui si dovrà articolare, ed alla complessità del suo svolgimento, complessità non di rado dipendente da fattori totalmente estranei al controllo del professionista stesso.


Il secondo profilo attiene all’adeguatezza della misura del compenso, rispetto all’importanza dell’opera: personalmente ritengo che tale precisazione – ancorché probabilmente ben vista dalle categorie professionali, in funzione anti-dumping, ed ancorché del tutto inutile, in quanto ripetitiva di quanto già statuisce il tuttora vigente art. 2233, secondo comma, c.c. – possa essere pericolosa, in quanto – cancellato il sistema tariffario – essa introduce la possibilità di un controllo giudiziale del compenso pattuito, con ciò facendo perdere certezza giuridica agli accordi sottoscritti tra professionisti e clienti. Ovviamente il segnalato pericolo è destinato ad attenuarsi, se – come è pressoché certo – i “parametri” ministeriali verranno ad essere adoperati quale canone di adeguatezza. Con il che, però, risulterebbe ulteriormente confermata la natura puramente cosmetica del passaggio dalle “tariffe” ai “parametri”, e serietà vorrebbe che in sede parlamentare – preso atto dell’ineludibilità, per le ragioni sopra esposte, dell’esistenza di una tariffa, ancorché non obbligatoria – si ponga fine ad una battaglia che, in conclusione, si rivela meramente nominalistica.


Il terzo profilo concerne le modalità sostanziali di pattuizione del compenso. A conferma di una notevole confusione di idee, nelle versioni del decreto apparse sulla stampa di sabato si leggeva che la misura del compenso si sarebbe dovuta pattuire “in modo onnicomprensivo”; nella versione pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale si legge invece esattamente l’opposto, e cioè – come detto – che la misura del compenso va pattuita “indicando per le singole prestazioni tutte le voci di costo, comprensive di spese, oneri e contributi”. Dunque, si è passati da un criterio di necessaria sinteticità, ad un criterio di necessaria analiticità.


Va da sé che, in quanto soluzioni oppostamente estreme, ambedue appaiono scarsamente perspicue.


Come è noto, infatti, a seguito dell’abolizione dell’obbligatorietà dei minimi tariffari, le modalità sostanziali di pattuizione del compenso tra professionisti e clienti si sono in concreto moltiplicate: facendo riferimento, ad esempio, alla categoria forense, si possono menzionare i compensi orari, quelli a forfait, quelli parametrati sulle tariffe ministeriali, eventualmente con uno sconto rispetto ai minimi, i patti di quota lite, i compensi a minimo garantito con success fee, e via elencando.


Ebbene, avendo il Governo introdotto il requisito della “analiticità”, non è chiaro quali di queste metodologie di determinazione del compenso seguitino ad essere compatibili con tale requisito.


Anche qui, delle due l’una: o si ritiene che tutte le modalità di cui sopra siano ancora consentite (salvo quanto statuito nella declamatoria statuizione contenuta nell’ultima frase del secondo comma), il che inevitabilmente finirebbe, in relazione ad alcune di dette modalità, per porre il problema del rapporto tra preventivo e consuntivo, come sopra delineato; o si ritiene, al contrario, che alcune di esse siano incompatibili con il nuovo assetto della materia, il che si tradurrebbe in un paradossale effetto limitativo dell’autonomia contrattuale, contenuto in un decreto legge in tema di liberalizzazioni.


Inoltre, deve rilevarsi che l’esigenza, sottesa alla logica del preventivo, di individuare in anticipo la misura del compenso, si pone in evidente contraddizione con l’opposta logica, di poter consentire che il relativo ammontare sia collegato, in tutto o in parte, al dato inizialmente incerto del conseguimento del risultato utile per il cliente. I fautori dell’opportunità che ciò sia permesso (laddove prima del Decreto Bersani in larga parte non lo era), lo ricordo, sono principalmente gli stessi propugnatori della libera concorrenza nel settore delle professioni, sicché non c’è dubbio che la questione meriti proprio da parte di costoro di venire opportunamente rimeditata.


Un accenno, infine, a proposito degli obblighi informativi. In larga parte, quanto statuito dal comma in esame (necessità di informare il cliente circa il grado di complessità dell’incarico e circa gli oneri ipotizzabili al momento del suo conferimento) risulta già attualmente sancito dalla totalità dei codici deontologici, nei quali – a ben vedere – gli obblighi di informazione a carico del professionista appaiono sovente ben più ampi ed incisivi. Dunque, atteso che il mancato rispetto di tali obblighi rileverebbe unicamente a fini disciplinari, ben può dirsi che nulla è destinato a cambiare rispetto allo status quo.


Un diverso discorso va invece fatto con riferimento all’obbligo di comunicare i dati della copertura assicurativa. Sotto questo profilo il decreto legge introduce una sorta di “fuga in avanti”, in quanto prevede la doverosità di una comunicazione inerente ad una circostanza, che però attualmente non forma oggetto di alcuno specifico obbligo generalizzato in capo ai professionisti.


L’obbligo di dotarsi di una copertura assicurativa è infatti previsto nell’ambito dei principi che dovranno essere recepiti nella futura riforma degli ordinamenti professionali (art. 3, comma quinto, del
decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito in legge 14 settembre 2011, n. 148), sicché allo stato non pare discutibile che la norma vada interpretata – come peraltro opportunamente si leggeva in alcune bozze preliminari del decreto legge – nel senso che l’obbligo deontologico della comunicazione al cliente dei dati della polizza assicurativa scatta solo se quest’ultima è stata in concreto stipulata.

4. Conclusioni.


L’impressione generale che si ritrae dalla lettura delle disposizioni che si sono commentate è, dunque, quella di un testo redatto con eccessiva fretta, assai condizionato da ragioni di natura squisitamente ideologica e, non ultimo, dalla necessità di introdurre alcuni “concetti chiave” (l’abolizione delle tariffe, il preventivo) politicamente e giornalisticamente efficaci, ma giuridicamente poveri di contenuto, quando non assolutamente discutibili sul piano della concreta formulazione.


L’auspicio è che un sereno iter parlamentare della legge di conversione consenta di apporre quei necessari correttivi, senza i quali la riforma rischia di produrre effetti esattamente contrari, rispetto ai propositi dichiarati.


Chi scrive non si nasconde che il fenomeno della globalizzazione e la crisi finanziaria che attanaglia l’Europa nel suo complesso, ed il nostro Paese in particolare, impongano dei decisi cambiamenti, i quali non potranno che riguardare tutte le categorie produttive.


In questo senso credo che vadano combattuti gli opposti estremismi, di chi da un lato seguita ad arroccarsi a difesa di un certo corporativismo fuori dai tempi, e di chi dal lato opposto pretende (spesso in mala fede ed in palese conflitto di interessi) di negare la specificità delle professioni e dei professionisti, rispetto alle attività di impresa.


Si aggiunga, infine, che una seria riforma delle professioni non potrebbe non tenere conto del fatto, troppo spesso volutamente omesso nei confronti della pubblica opinione, che la posizione del professionista può essere sì assimilata a quella del contraente c.d. forte, relativamente ai rapporti con la clientela consumatrice, o micro- e piccolo-imprenditoriale; ma che viceversa nei confronti dei grossi clienti (imprese industriali medio-grandi, grande distribuzione commerciale, banche, assicurazioni, enti pubblici e para-pubblici, sindacati, etc.) sono quasi sempre i professionisti a vestire i panni del contraente c.d. debole.

(Altalex, 26 gennaio 2012. Articolo di Claudio Colombo)













Informazione sanitaria e risarcimento alla madre

Riprendiamo dal sito Altalex

 L'università è responsabile del danno arrecato ai genitori di un neonato portatore di handicap, se la madre non è stata adeguatamente informata sulla reale condizione del feto e non è stata messa in condizione di procedere con l'aborto terapeutico.
E' quanto ha stabilito la Terza Sezione Civile della Corte di Cassazione con la sentenza 30 novembre 2011, n. 25559 in quanto trattasi di fatto dannoso lesivo di diritti inviolabili di autodeterminazione e di solidarietà familiare a protezione di minori portatori di handicap.
Il caso vedeva un uomo ed una donna diventare inaspettatamente genitori di un bambino affetto da sindrome di Down, nonostante che dagli esami eseguiti presso la clinica universitaria non fosse emerso nessun elemento rilevatore di una simile condizione del feto. Secondo la coppia, l'Università non aveva adeguatamente informato la gestante della tendenziale inaffidabilità dell'esame al quale era stata sottoposta e della conseguente necessità di procedere ad un ulteriore accertamento, da eseguirsi entro la ventiquattresima settimana, in modo da permetterle di esercitare la libertà di scelta dell'aborto terapeutico.
Secondo i giudici di legittimità è evidente la lesione del diritto della madre di poter decidere liberamente, anche attraverso una adeguata informazione sanitaria, la scelta dello aborto terapeutico o di rischiare una nascita a rischio genetico; scelta che, nella specie, le è stata preclusa dall'esito incerto dell'esame praticato, del quale non è stata data adeguata informazione.
La responsabilità dell'Università è di natura contrattuale e per "contatto sociale". Nel contatto di protezione tra la donna e l'Università, che effettua le analisi per escludere il rischio genetico, gli interessi da tutelare attengono alla sfera della salute in senso ampio (art. 32, Cost.), con la conseguenza che l'inadempimento dell'Università debitrice della prestazione, è suscettibile di ledere i diritti inviolabili della persona e quindi della gestante, nel caso di nascita di persona handicappata, ma anche del padre, che pure è giuridicamente solidale al mantenimento, alla crescita ed alla protezione del nato non sano.
In conclusione, deve essere accertata la responsabilità contrattuale dell'Università, inadempiente all'obbligo di protezione nel compiere l'ulteriore esame, e deve essere risarcito integralmente il danno non patrimoniale sofferto dai genitori della piccola handicappata, da parametrarsi alla gravità del sacrificio personale ed alla permanenza dell'assistenza di una persona che abbisogna di continue cure, sorveglianza ed affetto.
(Altalex, 7 dicembre 2011. Nota di Simone Marani)


giovedì 26 gennaio 2012

IL BLOG

La comunicazione via internet è ormai diventata uno strumento indispensabile per la diffusione delle notizie e delle idee.
Proprio per questa ragione abbiamo deciso di dare vita a questo piccolo blog, in modo da creare un confronto dinamico e vivace su tutti i temi legati al mondo dell'avvocatura, ma con uno sguardo ampio alla realtà sociale ed al quotidiano, nella speranza di fornire un piccolo servizio a tutti coloro i quali da sempre ci sostengono e si sentono parte integrante della grande famiglia AIGA.

Sciopero degli avvocati

L'assemblea degli avvocati di Gela  ha deliberato l'astensione dalle udienze dal 6 all'11 febbraio, in aggiunta a quella deliberata dall'OUA per il 23 e 24 febbraio, per protestare innanzitutto contro la norma che consente la costituzione di società con soci di solo capitale, non iscritti all'albo, per la prestazione di servizi legali e, ancora, contro l'inspiegabile inerzia di governo e Parlamento sulla riforma dell'ordinamento professionale

Messaggio Presidente

Messaggio del presidente del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Gela, avv. Antonio Gagliano, postato sulla pagina facebook dell'aiga di Gela
A chi sostiene di abolire l'ordine degli avvocati oppongo che LA DIFESA DELLA LIBERTA', DEL PATRIMONIO, DELLA FAMIGLIA, DELLA DIGNITA', DEL POSTO DI LAVORO, DELL'IMMAGINE ...INSOMMA LA DIFESA DEI DIRITTI DEVE AVERE LO STESSO RANGO, DEVE ESSERE TALE E QUALE LA DIFESA DELLA SALUTE ...NON PUò CERTO ESSERE TRATTATA COME IL DETERSIVO O LE LATTE DI OLIO SUI BANCHI DEL SUPERMARKET! C'E' QUALCUNO CHE OSA PENSARE DI LIBERALIZZARE LA PROFESSIONE MEDICA, O CHE RITIENE CHE PRIMA DI UN CONSULTO SPECIALISTICO, DI UNA VISITA, UN MEDICO DEBBA METTERE PER ISCRITTO QUANTO CHIEDERà per poi magari consultare la concorrenza di altri sanitari? C'è qualcuno che si potrà sentire rassicurato dal fatto che dovrà affidare la difesa dei suoi diritti, della sua libertà ad una società di capitali controllata da questo o quel gruppo finanziario, anzichè ad un uomo libero, che è un uomo ancor prima che un professionista, e che è legato ad una deontologia, di cui è in qualche modo garantita la preparazione e la professionalità? Guardate che non è in ballo tanto l'avvocatura, ma il sistema di tutela giurisdizionale dei diritti, cioè lo Stato stesso di diritto che, se tale, non può prescindere da una giustizia che si regga su tre gambe, tutte aventi pari dignità: quella del giudice terzo ed imparziale, quella di un'accusa legata all'esecutivo ed all'interesse pubblico ma anch'essa in qualche modo imparziale, e quella di una difesa che deve essere autorevole, autonoma, libera, competente ed efficace. Per questo, ad un paese civile non servono avvocati che siano precari o accattoni o servi di qualche interessato capitalista, ma avvocati veri, difensori nel senso più proprio del termine, perchè non possiamo negare che un cittadino che non potrà avvalersi di una efficace tutela e difesa dei suoi diritti non sarà più un cittadino ma un suddito! E' mai possibile che queste chiacchiere sui costi e sulle sirene delle liberalizzazioni ci abbiano fatto dimenticare questi dati essenziali del vivere civile, di uno stato democratioco di diritto? E' mai possibile che tutto debba esser letto secondo l'unica ottica dei "costi" e della concorrenza? Che c'entra la concorrenza col rapporto fiduciario, con l'impegno che è fatto di conoscenza, competenza, passione, intelligenza? Forse che pensiamo di calcolare qualche "spread" anche in questi ambiti? E, ancora, se dobbiamo parlare di costi ed economicità, volete dirmi qual'è il valore anche economico di una sentenza "giusta" che garantisce i giusti diritti? Quanto vale economicamente una giustizia che garantisce al meglio l'accertamento e la difesa dei giusti diritti? E' possibile pensare ad una giustizia che possa far ciò senza difensori che siano uomini liberi, deontologicamente corretti e preparati? E' mai possibile che l'unico metro di misura debba essere quello del mercato, dei costi, dell'accesso indiscriminato ad ogni attività, anche alle più delicate? Ma i Vostri, i nostri diritti, sopratutto quelli fondamentali (le relazioni familiari, i beni patrimoniali essenziali, la libertà, l'onore, l'immagine, la riservatezza, la condizione lavorativa e tanto altro), devono essere trattati al pari delle merci? Che senso ha riempirsi la bocca sul fatto che bisogna liberalizzare tutto e sopratutto abolire gli ordini? Se, ad esempio, taluno di quelli che propugna con tanta foga la più ampia apertura degli albi e persino la loro abolizione dovesse essere accusato di omicidio o di stupro è giisto che debba fronteggiare il suo accusatore al cospetto del suo giudice, insomma che debba difendersi, col primo che capita? Come si può pensare che non sia abbastanza libera una professione che vede in Italia ben 250.000 iscritti quando in Francia ve ne sono circa 40.000 o in Germania non più di 60.000? Guardate che molti di noi dalle liberalizzazioni non ne riceverebbero alcun danno, perchè alla fin fine chi sta sui carboni ardenti sa bene a chi rivolgersi e, anzi, ci guadagnerebbero pure perchè dovendo proporre al cliente un preventivo scritto, metterebbero subito e definitivamente le cose in chiaro nel momento in cui il cliente a tutto pensa tranne che al denaro: tuttavia aborrisco all'idea di pensare che la Giurisdizione, cioè la Giustizia, cioè il riconoscimento e la tutela dei diritti di tutti, debba perdere la sacralità, l'aura di rigore e dignità che le è propria e che essa possa essere affidata all'imperversare di chiunque! Per una volta, cerchiamo in Italia di esser meno semplicioni e superficiali, guardiamo a fondo le cose, cerchiamo di essere più circospetti specie verso chi (vedi confindustria, lobby industriali, finanziarie, assicurative varie, associazioni di consumatori che dall'oggi al domani hanno fatto diventare qualcuno molti senza arte nè parte, gli opportunisti ed i profittatori di turno) è portatore di interessi da sempre in contrasto col comune cittadino, con la singola persona spesso inerme rispetto ai poteri forti e che, sin qui, riconosciamolo, quando è stata lesa o minacciata nei suoi interessi più importanti si è rovata al fianco un avvocato, un uomo libero ed appassionato del suo lavoro. Scusate lo sfogo.

Abusivismo - La Parola al Giudice dell'esecuzione

Riprendiamo da Il sole 24 ore:
Tempi supplementari per l’ordine di demolizione di un fabbricato a seguito di una condanna per abusivismo edilizio. La sanzione infatti sfugge alla regola del giudicato ed è riesaminabile in fase esecutiva. Il giudice dell’esecuzione, infatti, è sempre competente a valutare la compatibilità dell’ordine di demolizione con i provvedimenti dell’autorità amministrativa. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 2860/2012, accogliendo il ricorso di un anziano signore di Afragola, un paesone in provincia di Napoli, che proprio a causa della applicazione di questi principi ha rischiato fino all’ultimo di perdere la casa.

Secondo la Cassazione, infatti, “in executivis” l’ordine di abbattimento deve essere revocato quando già sussistono delle determinazioni amministrative che si pongono in insanabile contrasto con la demolizione del manufatto. Mentre può essere sospeso se vi sono degli elementi concreti che fanno ragionevolmente presumere che tali provvedimenti saranno adottati in tempi brevi. Non basta invece, per la revoca o la sospensione, una “mera possibilità” di eventuali future determinazioni amministrative contrastanti con la demolizione.

Il tribunale di Napoli, però, in sede esecutiva aveva revocato la sospensione dell’ordine di demolizione impartito dal pretore perché il cittadino avrebbe sì proposto domanda di condono e pagato la relativa oblazione, ma non avrebbe corrisposto gli oneri accessori. A causa di questa omissione, secondo il giudice, la sanatoria sarebbe divenuta “una mera possibilità”.

Per la Cassazione, però, il giudice napoletano pur esercitando legittimamente il suo potere aveva travisato i fatti, perché gli oneri accessori, contrariamente a quanto da lui ricostruito, risultavano essere stati pagati. Perciò, venuta meno la ratio alla base della pronuncia, la Suprema Corte ha disposto il rinvio al giudice dell’esecuzione affinché valuti nuovamente i tempi e il possibile esito della procedura amministrativa per il rilascio della sanatoria.