lunedì 27 febbraio 2012

SPESE DI LITE

Riprendiamo dal sito Altalex

Il giudice non può compensare, in tutto o in parte, le spese di lite del giudizio senza far riferimento alle particolari e specifiche circostanze della controversia decisa.
Così ha statuito la Suprema Corte, nell’ordinanza 15 dicembre 2011, n. 26987, in cui è indicato che, se il giudicante non motiva la decisione di compensare le spese, la parte soccombente dovrà pagare l’avvocato della parte vittoriosa.
In particolare, la sezione sesta civile della Cassazione, ha accolto il ricorso di un automobilista al quale, ottenuto l’annullamento del verbale di accertamento di una violazione al codice della strada, erano state compensate le spese legali sia dal Giudice di pace che dal Tribunale.
In particolare, il Giudice di secondo grado aveva spiegato che la scelta di compensazione era dovuta alla “limitata attività difensiva” svolta dalla parte, alla natura della controversia, nonché alla materia oggetto di causa.
Gli Ermellini hanno ritenuto fondato il ricorso ”tenuto conto che l’art. 92, secondo comma cod. proc. civ., nel testo introdotto dall’art. 2 della Legge 28 dicembre 2005, n. 263, dispone che il giudice può compensare le spese, in tutto o in parte, se vi è soccombenza reciproca o concorrono altre” gravi ed eccezionali ragioni ”, esplicitamente indicate nella motivazione“. E’ stato perciò, condiviso l’orientamento espresso sul punto dalla Cassazione, secondo cui ”non è sufficiente che il giudicante fornisca una qualsiasi motivazione, ma è necessario che esponga argomentazioni giuridiche o di fatto idonee a giustificare la statuizione di compensazione adottata in concreto, potendo solo in tal caso ritenersi che la disposizione di legge sia stata osservata” (Cass. II, sentenza 21521 del 2010).
Pertanto, le gravi ed eccezionali ragioni che giustificano la compensazione delle spese legali, dovranno essere indicate esplicitamente nella motivazione, non potendo essere desunte dalla struttura del tipo di procedimento contenzioso applicato, né dalle particolari disposizioni processuali che lo regolano, ma devono riferirsi a concreti e particolari aspetti della controversia decisa.
La suddetta pronuncia conferma altre recenti decisioni della giurisprudenza di legittimità, secondo cui, il vizio di violazione di legge dell'art. 92, II comma, c.p.c., sussiste qualora la decisione di compensazione delle spese sia giustificata da generici motivi di equità e di opportunità (Cass., ord. 5 gennaio 2011, n. 247; Cass. 24 aprile 2010, n. 9845), per cui le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa se la scelta di compensazione sia motivata genericamente, così da non spiegare il processo formativo della volontà decisionale del giudicante (Cass. sentenza 9 dicembre 2011, n. 26466).
Le suindicate pronunce della non si sposano con le novità apportate dalla Manovra Monti in merito ai ricorsi davanti al Giudice di pace avverso le multe. In effetti, l’articolo 13 del Decreto legge 22 dicembre 2011, n. 212 contiene la modifica dell’articolo 91 del c.p.c., laddove prevede che «Nelle cause previste dall’articolo 82, primo comma, le spese, competenze ed onorari liquidati dal giudice non possono superare il valore della domanda».
Pertanto, adesso il Giudice di pace potrà condannare la parte soccombente al rimborso delle spese legali in favore della parte vittoriosa, ma nei limiti del valore della domanda.
(Altalex, 11 gennaio 2012. Nota di Maria Elena Bagnato)

lunedì 13 febbraio 2012

Tariffe forensi ed acrobazie giudiziarie

Riprendiamo dal sito di Altalex

Forse avrà anche contribuito ad abbassare lo spread, ma certamente - almeno nella fase d’avvio - il decreto “salvaitalia” non ha certo contribuito a rendere più certa, celere o agevole l’amministrazione della giustizia, soprattutto per le parti di buona fede.
Infatti l’abolizione delle tariffe professionali tout court per decreto e senza la previsione di una moratoria e/o un regime transitorio che fungesse da soluzione di continuità tra il vecchio sistema e il nuovo, ha lasciato un vuoto legislativo che la fantasia degli interpreti ha dovuto riempire nei modi più disparati. E se si può anche condividere l’enunciazione di principio secondo cui in un mercato transnazionale aperto non sia concepibile la sopravvivenza di sistemi di prezzi vincolati e amministrati politicamente dall’autorità statale, dobbiamo constatare che il modo e lo strumento con il Legislatore governativo ha scelto di riformare non è stato certo il più accorto e prudente, come del resto ha già osservato la commissione giustizia del Senato nel rendere il suo parere – ampiamente negativo – sul provvedimento.
Intanto però il decreto è vigente, e giudici e avvocati devono farci i conti. Letteralmente. Perché qui il problema è esattamente come fare i conti, cioè come liquidare la condanna nelle spese una volta che per legge le tariffe che costituivano i vecchi parametri sono inutilizzabili perché soppresse, mentre, d’altro canto, il ministro vigilante (che pur ha controfirmato il decreto legge 1/12) non ha ancora approntato i parametri previsti dal comma 2 dell’art. 9 per l’ipotesi specifica della liquidazione giudiziale dei compensi professionali.
Ecco quindi un giudice di Cosenza (ordinanza 1 febbraio 2012) che dichiara che in mancanza di un qualunque parametro di riferimento non può procedere ad alcuna liquidazione delle spese di procedura, nemmeno in via equitativa. Al contrario, il Giudice di Pace di Milano (sentenza 30 gennaio 2012) tenta un’operazione di interpretazione integrativa, col richiamo di una norma sostanziale, segnatamente l’art. 6, D.Lgs. 231/02, per procedere alla liquidazione delle spese di un’ingiunzione di pagamento. Tale norma, invero (analogamente all’art. 1224 c.c.), sancisce il diritto del creditore a ripetere dal debitore tutti i costi di recupero del credito, determinati anche presuntivamente. Tuttavia proprio il comma 2 del richiamato art. 6 contiene, a ben guardare, un elemento che ne vanifica il richiamo per lo scopo che ci occupa. A mente di tale norma i costi di recupero possono essere determinati anche in base ad elementi presuntivi e tenuto conto delle tariffe forensi in materia stragiudiziale, ma devono pur sempre rispondere a principi di trasparenza e di proporzionalità.
L’analisi sistematica e letterale della norma non lascia dubbi sul fatto che due siano i riferimenti per la liquidazione: 1) gli elementi presuntivi; 2) le tariffe forensi. Abolite queste ultime dal D.L. 1/12, non resterebbero che i primi, i quali però, per rispondere ai criteri di trasparenza e proporzionalità comunque richiesti dall’art. 6, D.Lgs. 231/02, dovrebbero essere indicati, quanto meno in modo sintetico e sommario, dal giudice liquidante, cosa che nel decreto in esame non è stata fatta. Ciò, a parere di chi scrive, legittimerebbe un’opposizione sul punto delle spese. In altre parole il giudice avrebbe dovuto palesare – anche solo con un breve inciso – i criteri con cui aveva ritenuto di determinare in 400,00 € piuttosto che in 350,00 o in 450,00 o in altra misura le spese del monitorio. In mancanza di tale indicazione, la liquidazione resta arbitraria, anche (o proprio) col riferimento analogico all’art. 6, D.Lgs. 231/02, in quanto non sono intellegibili né tampoco verificabili i criteri di trasparenza e proporzionalità richiesti dalla norma invocata a sostegno. Senza poi contare che il D.Lgs. 231/02 si applica solo ai rapporti tra imprenditori, mentre il correlativo art. 1224 c.c. non dispone di una previsione analoga al comma 2 del citato D.Lgs. 231/02 quanto alla determinazione in via presuntiva.
Resta quindi aperta la domanda: ma allora quali potrebbero essere, allo stato, i criteri per una legittima liquidazione delle spese di giudizio?
Certo ripugna al senso comune (ma anche alla logica sistematica) che una norma emanata dichiaratamente per favorire i cittadini-utenti si concretizzi nell’impossibilità di ripetere dalla parte soccombente gli oneri del servizio professionale sopportati per realizzare le proprie legittime ragioni, anche perché taluno potrebbe dolersi di denegata giustizia rispetto al giudice che rifiutasse di pronunciare sul capo relativo alle spese in ragione dell’abolizione delle tariffe professionali, ovvero dolersi della violazione del principio di soccombenza sancito dall’art. 91 c.p.c.
Ma d’altronde come non comprendere l’imbarazzo di chi, dovendo esprimere e giustificare un numero, un valore economico, si vede da un giorno all’altro deprivato degli strumenti indicatori che hanno sino a quel momento guidato la liquidazione delle spese? Tuttavia anche di fronte alla distonia legislativa il giurista interprete deve provare a raggiungere un risultato utile e coerente, per quanto ancora possibile.
E allora, pur in mancanza di un auspicabile regime transitorio, si può forse supplire al deficit attraverso un’operazione logica che, passando per l’art. 36 Cost., definisca e legittimi dei criteri di liquidazione giudiziale delle spese sin quando il ministro di giustizia non avrà avuto l’accortezza di provvedere a dar luogo all’art. 9 comma 2 del decreto “salvaitalia”.
Il ragionamento potrebbe essere il seguente: posto che, ai sensi dell’art. 91 c.p.c. il giudice, salvo ricorrano motivi di compensazione, è tenuto a liquidare e porre a carico della parte soccombente le spese della lite sostenute dalla parte vittoriosa; che una quota non trascurabile di esse è costituito dal compenso dell’opera del difensore, il quale è prestatore d’opera intellettuale e come tale rientrante nella previsione dell’art. 36 Cost.; che infatti, sin quando sono state vigenti, le tariffe professionali forensi erano redatte avuto riguardo a tale norma costituzionale; che la loro soppressione come cogenti non ne elimina né ne inficia, in mancanza di altri parametri, l’utilizzabilità ai fini di una liquidazione equitativa delle spese di lite; che sarebbe contrario al principio di ragionevolezza affermare oggi un compenso inferiore a quello ritenuto sino a ieri conforme all’art. 36 Cost.; liquida equitativamente in € (…) le spese di lite.
Poi quando il ministro provvederà ad integrare la previsione normativa dell’art. 9 comma 2, si potrà essere esenti dallo sgranare il rosario che precede.
(Altalex, 9 febbraio 2012. Articolo di Barbara Lorenzi e Giuseppe M. Valenti)

venerdì 10 febbraio 2012

Lettera di un avvocato

Al Sig. Presidente dell'OUA - Roma
Al Sig.Presidente del CNF – Roma
Al Signor Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Catania
Carissimi Presidenti,
Mi chiamo Goffredo D'Antona classe 1963, faccio l’avvocato penalista a Catania.
Qualche giorno fa, sulla spinta della rabbia e della delusione suscitate dalla lettura delle nuove norme del decreto liberalizzazioni riguardanti le professioni, ho scritto una lettera aperta al Ministro della Giustizia, nella quale ho voluto esprimere quella rabbia e la stanchezza per il definitivo svilimento subito dalla professione di avvocato.
Sappiamo tutti che i provvedimenti legislativi approvati negli ultimi anni hanno avuto un unico filo conduttore: costruire una giustizia per ricchi, sminuire il ruolo dell'avvocato; tutto ciò a compressione dei diritti dei cittadini, quei diritti sanciti nella Costituzione, che sembra ogni giorno di più dimenticata.
Sino all'ultima “riforma” varata dal governo Monti; provvedimento che, a mio avviso, riduce quella che è una figura fondamentale delle nostra Democrazia, avente, spesso lo si dimentica, rango costituzionale – quella dell'avvocato -, alla stregua di un “ bottegaio” ( nel senso astratto del termine)..
Nella mia lettera ho raccontato la mia esperienza, comune a tanti colleghi, dicendo una cosa che a me sembrava ovvia – ma che ai più, forse, non lo è -, e cioè che per diventare avvocato ho studiato e mi sono impegnato tanto, facendo molti sacrifici. Ho voluto raccontare la mia storia di professionista. Ho voluto raccontare dell'impegno profuso nella professione, dei sacrifici che continuo a fare, spesso a discapito della mia famiglia; ma anche delle soddisfazioni che questa professione regala. Al ministro della Giustizia ho scritto che io ci credo ancora, forte degli insegnamenti di Calamandrei; credo che l'avvocato sia e debba restare una sentinella della Costituzione. Così come in fondo stabilisce quel giuramento che compiamo nel giorno in cui mettiamo la prima volta la toga.
Ho inviato la lettera al Ministro della Giustizia, certo che non avrei avuto risposta. Come infatti non ho avuto.
Questa lettera poi ha cominciato a circolare, tra avvocati e no. Inaspettatamente sono stato contatto da avvocati da tutta Italia, di tutte le età, che mi hanno detto che si sono ritrovati in quella lettera. In quei sacrifici, in quello senso di essere un componente della Giustizia.
Confesso che mi sono una punta vergognato, in quanto ho parlato anche dei miei sacrifici di padre, non pensando agli immani sacrifici che le donne, le mamme affrontato ogni giorno facendo questo mestiere.
Ho compreso anche una cosa.
Che noi avvocati siamo stanchi di vedere le nostre toghe sporcate da avvocati lestofanti contro i quali si è fatto troppo poco. E che offuscano loro la nostra immagine, ma sopratutto la nostra funzione.
Ho compreso anche un'altra cosa.
Che noi avvocati siamo stanchi di esercitare la nostra funzione Costituzionale in condizioni silenti di grandi sacrifici e di essere additati dal politico di turno, come i responsabili della crisi della giustizia e addirittura della crisi economica, di “ questo benedetto assurdo bel paese”.
Per tali ragioni mi rivolgo a Voi, portandoVi questo piccolo patrimonio di consenso che inconsapevolmente la mia lettera ha ricevuto. A questo punto, tocca a Voi.
Tocca agli Organismi che ci rappresentano a livello nazionale farsi portatori di una protesta incisiva, dura, capace di arrivare a chi deve decidere e di sensibilizzare l'opinione pubblica. Perdonatemi, non certo una protesta come quella organizzata in occasione della legge sulla mediazione – protesta debolissima, oltre che inutile e tardiva, visto che la legge era già entrata in vigore! .
In Parlamento si sta discutendo della conversione in legge del decreto. Questo è il momento di fare sentire la nostra voce, attraverso il dialogo con le forze politiche – come si sta già facendo- , ma anche organizzando iniziative “forti”, che non si limitino ad un paio di giorni di astensione dalle udienze.
Iniziative anche estreme.
E non per difendere i nostri “ privilegi “ ( che a quasi 50 anni devo dire non so bene quali siano, se non fare il lavoro più bello del mondo), ma per difendere quella Carta Costituzionale scritta qualche anno fa anche da un nostro collega, Autore di un libro che dovrebbe essere materia di esame per diventare avvocato.
L'occasione è imperdibile; anche perché è forse l ultima per dare dignità e decoro alle nostre toghe. Quelle toghe che ci hanno regalato i nostri Mastri e che noi regaliamo ai nostri Allievi. Quelle toghe che dovremmo donare ai nostri Allievi.
Mi aspetto – ci aspettiamo – molto di più.
In difesa della Professione. In difesa della Giustizia. In difesa della Costituzione.
Un Caro saluto.
Catania 10 febbraio 2012.
Goffredo D’Antona

giovedì 9 febbraio 2012

Delegazione aiga incontra il ministro della Giustizia

Comunicato Stampa del 09.02.2012
GIUSTIZIA. GIOVANI AVVOCATI RICEVUTI DAL MINISTRO SEVERINO
GRECO: RIVEDERE ACCESSO, PREMIANDO CHI SVOLGE DAVVERO PRATICA
«Siamo soddisfatti per l'incontro che abbiamo avuto oggi con il ministro della Giustizia Paola Severino, alla quale abbiamo posto in evidenza lo stato di indigenza della giovane avvocatura, costretta, fra l'altro, ad attendere anche tre anni per ottenere l'onorario dopo aver prestato assistenza nel gratuito patrocinio. Abbiamo espresso le nostre perplessità sulla norma per la costituzione delle società professionali, e abbiamo trovato ascolto da parte del Guardasigilli sulla necessità che l'accesso venga rivisto, in Italia, premiando i giovani professionisti più meritevoli, che abbiano realmente svolto la pratica. Abbiamo, inoltre, auspicato l'abrogazione dell'obbligo di preventivo impossibile da redigere per la professione forense». A sostenerlo, in una nota, è Dario Greco, presidente dell'Aiga, l'Associazione italiana dei giovani avvocati, al termine dell'incontro con il ministro della Giustizia. A proposito del praticantato, il leader dei legali under45 aggiunge: «Bisogna evitare fenomeni fittizi, fare in modo che l'avvocatura non diventi l'ultima spiaggia per coloro che sono stati bocciati agli esami per diventare magistrato, notaio, o funzionario pubblico. C'è bisogno, infine – ha chiuso Greco – di dare dignità a chi si avvicina con passione alla professione forense, e dunque va reintrodotto l'equo compenso per il praticante, deciso dalla manovra di agosto e cancellato dal governo Monti».

Responsabilità civile e concorso del creditore

Riprendiamo dal sito Altalex:

Nella sentenza  21 novembre 2011, n. 24406, Cassazione civile, Sezioni Unite, la Suprema Corte affronta una importante questione giuridica, inerente all’intera area della responsabilità civile e relativa, nello specifico, all’art. 1227 c.c. “Concorso del fatto colposo del creditore[1], dettato in tema di responsabilità contrattuale[2] ma unanimemente riconosciuto applicabile anche nell’ambito della responsabilità aquiliana, per effetto del rinvio operato dall’art. 2056 c.c.
Il menzionato art. 1227 co. 1, in particolare, prevede che “Se il fatto colposo del creditore [o del danneggiato] ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate”.
Uno dei principali problemi applicativi, che la norma pone, riguarda l’ipotesi in cui la condotta del danneggiato – da vagliare sotto il profilo del potenziale concorso di colpa e della conseguente limitazione dell’obbligo risarcitorio – non sia attivo ma omissivo.
Viene in considerazione, quindi, il tema del concorso omissivo del danneggiato e, di conseguenza, della causalità omissiva. Tema lungamente dibattuto dalla giurisprudenza penale formatasi intorno alla materia dei reati omissivi impropri.
In ambito penale, la questione è stata risolta sulla base della teoria c.d. normativa, avallata dall’art. 40 c. 2 c.p., il quale letteralmente dispone che “non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”: per affermare la responsabilità penale, in altri termini, non è sufficiente richiamarsi al principio del neminem laedere o ad una generica antidoverosità sociale dell'inerzia, ma occorre che sussista, e sia individuabile caso per caso, un vero e proprio obbligo giuridico di impedire l'evento che può derivare da una norma giuridica o, quantomeno, da uno specifico rapporto negoziale (c.d. obblighi di protezione).
Trasponendo una simile impostazione all’ambito civilistico, con specifico riferimento al creditore/danneggiato che – con il proprio contegno inerte – abbia in tesi concorso a causare il danno di cui pretendere di essere risarcito, derivera che il meccanismo delineato dall’art. 1227 c.c. sarebbe destinato ad operare limitatamente all’ipotesi in cui sia individuabile una norma giuridica (ovvero una previsione contrattuale) che ponga a carico del danneggiato uno specifico obbligo giuridico di agire e, dunque, di attivarsi per evitare l’evento.
Perché sia configurabile il concorso del fatto colposo del danneggiato, in definitiva, sarebbe necessaria la c.d. colpa specifica.
Un siffatto orientamento, avallato da diverse pronunce giurisprudenziali e – da ultimo – dalla terza sezione della Corte di Cassazione[3], viene respinto dalle Sezioni Unite che, al contrario, affermano che un comportamento omissivo caratterizzato dalla colpa generica sia sufficiente a fondare il concorso di colpa del creditore/danneggiato.
Secondo Cassazione civile, Sezioni Unite, 21 novembre 2011, n. 24406, in particolare, “stante la genericità dell'art. 1227,c. I, c.c. sul punto, la colpa sussiste non solo in ipotesi di violazione da parte del creditore-danneggiato di un obbligo giuridico, ma anche nella violazione della norma comportamentale di diligenza, sotto il profilo della colpa generica”.
Rispetto agli indirizzi più restrittivi precedentemente espressi dalla giurisprudenza, Il principio di diritto declamato dai Giudici di Piazza Cavour si colloca nel solco di una maggiore responsabilizzazione del soggetto danneggiato, nella prospettiva di una più completa affermazione del corollario, desumibile dall’art. 1227 c.c., per cui al danneggiante non può far carico quella parte di danno che non è a lui causalmente imputabile.
(Altalex, 19 dicembre 2011. Nota di Raffaele Plenteda


martedì 7 febbraio 2012

Disoccupazione e assegno di mantenimento

Riprendiamo dal sito Altalex
Con una sentenza che lascerà spazio a qualche perplessità, la Cassazione stabilisce che in tema di assegno di mantenimento da parte dell’altro coniuge, non è sufficiente allegare meramente uno stato di disoccupazione, dovendosi verificare, avuto riguardo a tutte le circostanze concrete del caso, la possibilità del coniuge richiedente di collocarsi o meno utilmente, ed in relazione alle proprie attitudini, nel mercato del lavoro.
Si tratta della sentenza 9-27 dicembre 2011, n. 28870 rilasciata nello stesso giorno in cui la stessa Cassazione ha stabilito che l’ex moglie ha diritto all’assegno di divorzio anche se lavora e percepisce un reddito proprio. In realtà, i due casi sono basati su presupposti diversi anche se riconducibili alla situazione di disagio lavorativo in cui versano i singoli.
Nel caso di specie il ricorrente contesta la decisione della Corte di appello di Lecce che, nel dicembre 2007, dopo aver rilevato che l’uomo aveva trovato un’occupazione a tempo determinato, lo aveva condannato al mantenimento dei figli, affidati all’ex moglie, con 300 euro mensili. La decisione andava a modificare il precedente decreto depositato in data 8 marzo 2006 con cui il Tribunale di Brindisi omologava la separazione personale consensuale dei due coniugi, affidando alla moglie i figli minori, senza che fosse previsto alcun obbligo contributivo a carico del padre disoccupato. Da qui il ricorso per cassazione, nel tentativo per il padre di far rivivere la decisione di primo grado, in base alla permanenza dello stato di disoccupazione.
Il ricorrente formula anche il quesito da proporre alla Corte: se si possa disporre l'aumento dell'assegno in favore dei figli minori senza tener conto dei redditi delle parti, non esplicitando il ragionamento logico giuridico seguito per giungere alla decisione dell'aumento, non tenendo in alcuna considerazione le informative dalle quali emergeva che nel periodo considerato l'obbligato era disoccupato.
Tuttavia, gli Ermellini dichiarano l’inammissibilità del motivo di doglianza, a causa della formulazione del quesito di diritto in maniera non conforme alla disposizione contenuta nell'art. 366 bis c.p.c. Infatti, proseguono i giudici, nel motivo in esame sono prospettate doglianze che, intrecciandosi fra loro, ineriscono tanto a violazioni di legge, quanto a vizi motivazionali. In ogni caso, il giudice di merito aveva precisato che nel caso in cui dovesse nuovamente prospettarsi un mutamento, peggiorativo, delle condizioni economiche e reddituali del medesimo, il ricorrente potrebbe ben richiedere, a sua volta, il mutamento delle condizioni della separazione.
D’altra parte, concludono i giudici di Piazza Cavour, la mera allegazione dello stato di disoccupazione non è sufficiente per stabilire il mutamento peggiorativo del le condizioni del soggetto, dovendo necessariamente verificarsi, con attenzione alle circostanze concrete del caso, la possibilità per lo stesso di collocarsi o meno utilmente ed in relazione alle proprie attitudini nel mercato di lavoro.
Da qui la dichiarazione di inammissibilità del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
(Altalex, 16 gennaio 2012. Nota di Alessandro Ferretti)

sabato 4 febbraio 2012

Manifesto nazionale aiga per l'elezione dei consigli dell'ordine

L'aiga di Gela non ha espresso un proprio candidato per il Consiglio dell'Ordine, tuttavia vogliamo invitare i futuri consiglieri ad aderire alle linee guida indicate dal manifesto che l'aiga nazionale ha pubblicato in vista del rinnovo dei Consigli dell'Ordine.
Linee guida che si affiancano al nostro programma per il futuro.

venerdì 3 febbraio 2012

Quando la notifica del decreto ingiuntivo è inesistente

Con ordinanza 31 agosto 2011 il Tribunale di Torino ha ritenuto di aderire alla tesi prevalente in giurisprudenza, secondo cui la notificazione inesistente (ossia non effettuata) ovvero quella giuridicamente inesistente (come quella effettuata in luogo e a persona in alcun modo riferibile al debitore ingiunto) comporta l'inefficacia del decreto ingiuntivo ex art. 644 c.p.c., la quale può essere fatta valere non soltanto con la procedura di cui all'art. 188 disp. att. c.p.c. ovvero con autonoma azione ordinaria di accertamento negativo, bensì anche con l'opposizione all'esecuzione a norma dell'art. 615 c.p.c.
A portare la questione davanti al giudice di merito torinese, una donna, titolare di un'impresa individuale che, vedendosi destinataria di una procedura di espropriazione mobiliare, si opponeva all'esecuzione eccependo l'inesistenza della notifica del decreto ingiuntivo emesso nei suoi confronti in quanto inoltrato ad un recapito errato.
Ricorso accolto e procedimento esecutivo sospeso.
Il Tribunale investito ricorda, in particolare, come una recente pronuncia della Corte di Cassazione abbia affermato che “di fronte alla minaccia dell'esecuzione forzata in base ad un decreto d'ingiunzione dichiarato esecutivo per mancata opposizione, l'ingiunto, che sostenga l'inesistenza della notificazione del decreto stesso, cioè deduca che nei suoi riguardi non è mai stata eseguita un'operazione di notificazione giuridicamente qualificabile come tale , può proporre opposizione all'esecuzione forzata ex art. 615 c.p.c. E tale rimedio è proponibile, ove l'esecuzione inizi, fintantochè il processo esecutivo non si sia concluso” (Cass. Civile, sez. III, 7 luglio 2009, n. 15892).
Come da codice di rito, pertanto, il giudice designato ha assegnato termine perentorio per l'introduzione del giudizio di merito relativo all'opposizione.
(Altalex, 16 gennaio 2012. Nota di Maria Spataro)

Lavoro ed estorsioni

Riprendiamo dal sito de Il Sole 24 Ore
Obbligare un lavoratore a scegliere tra i propri diritti e una mancata assunzione o un licenziamento è un'estorsione. Ora lo sa, anche se probabilmente lo sapeva anche prima, l'imprenditore, indagato per estorsione, che si è rivolto alla Corte di cassazione con la speranza di ottenere la revoca degli arresti domiciliari incassando il no degli ermellini. Alla base del verdetto negativo, emesso dalla seconda sezione con la sentenza n. 4290 (si legga il testo sul sito di Guida al diritto) il timore che le misure meno afflittive non fossero sufficienti a scongiurare nuovi "interventi" dell'imprenditore su soggetti che erano stati parte della sua passata vita aziendale o ne facevano parte ancora.

Le minacce

Questi soggetti, non proprio fortunati, erano gli operai assunti nell'azienda del ricorrente con un "patto" che prevedeva il pagamento di un assegno "virtuale", che rispettava il tetto previsto dal contratto collettivo nazionale, peccato che parte dei soldi dovesse essere restituita brevi manu e in contanti. Per chi non accettava il "compromesso" c'era la minaccia della mancata assunzione o del licenziamento. Non contento l'imprenditore si impegnava anche a fare terra bruciata attorno ai "ribelli" mettendo in guardia altri industriali. Una "promessa" messa in atto come risultava dalle intercettazioni telefoniche. Tutto questo per l'indagato era il risultato di una "libera contrattazione", nell'ambito della quale la deroga a quanto previsto dal contratto nazionale o di settore può dar luogo al massimo alla violazione della normativa in tema di lavoro. Nessun dubbio per gli ermellini che nella situazione analizzata gli arresti domiciliari fossero meritati. Le modalità della libera contrattazione sono, infatti, diverse.

Giudici e ritardi

Riprendiamo dal sito Altalex
La giustificazione delle ragioni del ritardo nel compimento degli atti inerenti all’esercizio delle funzioni è definibile quale “causa di giustificazione non codificata”, rilevante oggettivamente o soggettivamente, caratterizzata da “elasticità applicativa” stante l’impossibilità di enumerare ogni situazione idonea a giustificare la mancata osservanza del precetto. Da ciò discende che il ritardo, grave o reiterato, rappresenta, di per sé, illecito.
Questo il dictum delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella pronunzia n. 528 depositata il 17 gennaio 2012.
Un giudice civile viene sottoposto a giudizio disciplinare per violazione delle fattispecie ex art. 18 del RD 511/1946 e artt. 1 e 2 comma 1 lett. q del D.lgs. 109/2006, addebiti mossi a seguito di una verifica ispettiva presso gli uffici giudiziari a cui era addetto. In particolare venivano ravvisati ritardi nel deposito di 181 sentenze monocratiche e di 268 ordinanze riservate, protratti oltre il triplo del termine concesso per il deposito della minuta (30 giorni per le sentenze monocratiche, 5 giorni per le ordinanze riservate).
La sezione disciplinare del CSM, all’esito dell’istruttoria, pronuncia sentenza di assoluzione del giudice “per essere risultati esclusi gli addebiti”.
Siffatti addebiti vengono esclusi dal giudice disciplinare sul presupposto che i ritardi risultavano, nella specie, motivati: nell’arco temporale analizzato, il giudice era stato assegnato a plurime funzioni, la cui espletazione aveva richiesto un impegno quasi quotidiano per la preparazione e il compimento delle udienze, conservando una produttività elevata e costante.
Avverso la pronuncia disciplinare il ministero della giustizia propone ricorso. Le Sezioni Unite lo accolgono, cassando la decisione e rinviando il procedimento alla sezione disciplinare del CSM in altra composizione.
Per le Sezioni Unite la motivazione delle ragioni dei ritardi ha natura di causa di giustificazione non codificata, rilevante sul piano oggettivo o soggettivo: nel caso si trattava di “mancanza di “riprovevolezza” della condotta, caratterizzata da una indiscutibile “elasticità” applicativa […] attesa la impossibilità, sul piano fattuale non meno che giuridico, di elencare tassativamente e analiticamente tutte le situazioni astrattamente idonee a giustificare l’inosservanza della norma precettiva […]”.
Il ritardo grave o reiterato integra di per sé la fattispecie incriminatrice, attesa la tipizzazione delle condotte illecite operata dal D.lgs. del 2006, così che l’addebito mosso al giudice richiede non la prova, da parte dell’accusa, della violazione dell’obbligo di diligenza, bensì l’allegazione, da parte dell’incolpato, di circostanze utili a dimostrare la giustificabilità del ritardo che, qualora distinto dal superamento di ogni limite di ragionevolezza, si sostanzia in un’ipotesi di denegata giustizia. Siffatta condotta contrasta col diritto delle parti alla durata ragionevole del processo.
(Altalex, 31 gennaio 2011. Nota di Laura Biarella)

Pubblicare sul blog di Aiga Gela

Chiunque voglia pubblicare sul blog dell'aiga di Gela articoli inerenti il diritto e l'avvocatura può inviare il testo o il link, unitamente al titolo dell'articolo, direttamente al seguente indirizzo email: aigagela@gmail.com.

giovedì 2 febbraio 2012

Retribuzioni ai praticanti

Riprendiamo dal sito de "Il sole 24 ore"

È tempo di crisi per i praticanti inglesi. E la Solicitors Regulation Authority (SRA), l'organizzazione che sovrintende la categoria forense in Inghilterra, torna alla carica con un dibattito sempre attuale negli studi legali, inglesi e italiani. Quanto devono essere pagati i professionisti che stanno completando il periodo di formazione? Negli studi d'affari infatti i praticanti sono costo, ma allo stesso tempo risorsa in quanto anche senza l'abilitazione per esercitare la professione possono partecipare alle riunioni con i clienti e svolgere la fondamentale ricerca documentale.
A questo proposito, la SRA ha appena pubblicato un questionario in cui chiede in una consultazione pubblica su quanto valore abbia un salario minimo alla luce delle liberalizzazioni introdotte in Inghilterra dal Legal Services Act.

Al momento, i praticanti inglesi hanno un salario minimo garantito di 18590 sterline per chi lavora a Londra, e di 16650 sterline per chi lavora in altre città. I salari minimi sono stati introdotti in Inghilterra nel 1982, con l'obiettivo di attrarre i candidati migliori verso la professione, ma sembrano oggi uno strumento obsoleto in quanto il mercato è da tempo saturo. Uno dei rischi del salario minimo sarebbe peraltro quello di rendere più difficile la diversificazione della nuova generazione di professionisti, attenzione che in inglese prende il nome di diversity.
Secondo una ricerca appena svolta da Legal Futures infatti, il 42% dei praticanti che fa parte di una minoranza etnica fa parte di una minoranza, contro il 27% dei praticanti di origine inglese. Il mercato legale inglese è inoltre spaccato in due differenti mondi. Da una lato quello degli studi d'affari della City, dove il salario minimo è almeno raddoppiato per i praticanti che ogni anno entrano in studio. Dall'altro quello degli studi di provincia dove il numero dei professionisti si conta sulle dita di una mano. In queste realtà, la vita e la retribuzione dei praticanti è ben diversa. La stessa divisione si ritrova sul mercato italiano. Negli studi d'affari di matrice anglosassone, gli avvocati in erba arrivano a ricevere una retribuzione annua lorda che si oscilla intorno ai 35mila euro l'anno, con picchi maggiori per gli studi americani.
Stando poi alla ricerca "Professionisti: a quali condizioni?" svolta da Ires e Cgil, solo il 43,8% dei praticanti avvocato riceve un compenso mensile, corrisposto come rimborso spese che nella maggior parte dei casi varia tra i 500 e i 700 euro al mese. Le normative discusse negli ultimi 2 anni relative alla liberalizzazione della professione forense hanno fatto in diverse occasioni riferimento all'introduzione di un giusto compenso per i praticanti. Che tuttavia, senza una quantificazione oggettiva come quella inglese, non introdurrebbe una vera novità nel mercato. La norma introdotta con la "legge quadro" della scorsa estate relativa all'equo compenso è stata tuttavia eliminata dal testo definitivo del decreto sulle liberalizzazioni approvato nei giorni scorsi dal Governo.
Il dibattito, sia in Italia che in Inghilterra, resta dunque aperto.

mercoledì 1 febbraio 2012

Un programma per il futuro

Per andare avanti bisogna sapere quale direzione prendere, altrimenti difficilmente si arriverà da qualche parte. Con questo spirito abbiamo delineato un programma da presentare ai futuri consiglieri dell'Ordine degli Avvocati, nella speranza che questi nostri intenti si trasformino nella direzione migliore per la giovane avvocatura.